Il contrabbando di carburante in Libia non è una questione marginale né un fenomeno criminale confinato ai porti del Mediterraneo. È, sempre più chiaramente, un ingranaggio centrale nella crisi politica, economica e militare del paese, e un nodo che si intreccia con gli equilibri di potere nel Nordafrica e nel Sahel. L’ultimo rapporto di The Sentry, l’organizzazione investigativa fondata da George Clooney e John Prendergast, ha stimato in 20 miliardi di dollari le perdite accumulate tra il 2022 e il 2024 a causa del traffico illegale di carburante, una cifra talmente imponente da incidere sull’intera struttura finanziaria dello Stato libico. L’inchiesta sostiene che il sistema sia gestito dall’interno, con responsabilità dirette che coinvolgerebbero sia la famiglia del generale Khalifa Haftar nell’est sia ambienti vicini al premier Abdel Hamid Dbeibah nell’ovest: due blocchi politici rivali accomunati da un interesse economico che supera la loro competizione istituzionale.
Il meccanismo che alimenta il contrabbando affonda le radici nella struttura stessa dell’economia libica. Il carburante, fortemente sussidiato dallo Stato, ha un prezzo simbolico sul mercato interno, fattore che lo rende immediatamente appetibile per chiunque abbia accesso a reti logistiche e contatti nelle milizie locali. La scelta della National Oil Corporation di utilizzare, dal 2021, un sistema di “swap” — scambio di greggio con carburante raffinato — ha aumentato ulteriormente le zone d’ombra. Le importazioni sono cresciute oltre ogni proporzione, mentre una quota rilevante delle forniture risultava di fatto inghiottita da circuiti paralleli che bypassavano i registri ufficiali. Ciò ha generato un effetto paradossale: un paese con riserve petrolifere tra le più vaste dell’Africa è diventato terreno di continui blackout nelle stazioni di servizio, con cittadini costretti a rivolgersi al mercato nero per ottenere ciò che in teoria è ampiamente disponibile.
Se la dimensione economica è cruciale, quella geopolitica non è meno determinante. Il traffico di carburante non si limita a generare ricchezze personali: sostiene milizie, consolida leadership armate e alimenta conflitti in aree dove gli equilibri sono già estremamente fragili. Secondo The Sentry, parte del carburante sottratto finisce nelle mani delle Rapid Support Forces sudanesi, uno dei protagonisti della guerra in Sudan, e viene utilizzato per alimentare le operazioni di gruppi armati che da anni devastano vaste regioni del Paese. Un’altra quota, riferisce il rapporto, confluisce nei circuiti logistici dell’Africa Corps, la struttura militare russa che ha sostituito la Wagner in molte operazioni nel Sahel. Per la Russia, dunque, la Libia rappresenta un hub energetico indispensabile per sostenere la propria presenza nel continente africano, in aree dove le istituzioni statali sono deboli e i conflitti interni creano un terreno fertile per influenze esterne.
Questo sistema di scambi illeciti coinvolge anche l’altra sponda del Mediterraneo. Secondo le informazioni raccolte da The Sentry e riprese da fonti giornalistiche europee, Malta e Italia sarebbero tra i paesi più esposti all’ingresso nelle loro economie di carburante libico dirottato. Una parte del prodotto raggiunge anche la Turchia e, in misura minore, gli Emirati Arabi Uniti. Per l’Europa meridionale, già alle prese con la gestione dei flussi migratori e con la dipendenza energetica, il traffico di carburante rappresenta un ulteriore fattore di vulnerabilità: un canale che porta nelle economie legali risorse provenienti da circuiti criminali e in molti casi legati a milizie armate.
L’intera architettura del contrabbando è resa possibile dall’assenza di un’autorità centrale pienamente legittimata. La Libia vive da anni in una condizione di divisione istituzionale: due governi rivali, milizie che gestiscono fette di territorio come feudi, porti e frontiere controllati da gruppi che rispondono a logiche personali o claniche più che statuali. In questo contesto, il carburante diventa più di una risorsa economica: è una forma di potere. Controllarne il flusso significa finanziare fedeltà, comprare alleanze, sostenere apparati di sicurezza paralleli a quelli ufficiali. Il traffico di carburante, in sostanza, non è solo il sintomo della fragilità libica: ne è uno dei motori.
Gli effetti ricadono pesantemente sulla popolazione. La perdita di valuta estera indebolisce la capacità dello Stato di importare beni essenziali, mentre il costo dei sussidi cresce senza tradursi in un beneficio reale. Le risorse sottratte potrebbero finanziare ospedali, scuole, infrastrutture, ma finiscono invece a nutrire un’economia grigia che rafforza gli attori più armati e meglio organizzati, non certo le istituzioni.
Di fronte a un sistema così radicato, le soluzioni appaiono complesse. Gli organismi internazionali chiedono da anni una riforma del sistema dei sussidi e una maggiore trasparenza nella gestione della NOC, ma ogni passo in questa direzione incontra la resistenza dei gruppi che traggono profitto dall’opacità attuale. Anche la comunità internazionale ha responsabilità dirette: il Mediterraneo centrale e il Sahel sono aree in cui interessi europei, russi, turchi ed emiratini si intersecano, spesso alimentando — più o meno indirettamente — proprio quei flussi illegali che dichiarano di voler combattere.
Il carburante libico sottratto allo Stato, insomma, non è solo un affare criminale. È una finestra sulla crisi di un paese bloccato in un limbo post-rivoluzione, e uno specchio delle tensioni che attraversano l’Africa settentrionale e il Medio Oriente. Comprendere questo traffico significa comprendere una parte fondamentale della geopolitica del Mediterraneo allargato. Fermarlo, però, richiede qualcosa che oggi la Libia non ha: un’autorità centrale forte, riconosciuta e capace di controllare — e non solo gestire — le enormi ricchezze che scorrono nel suo sottosuolo.



e poi