(Bruno Scapini) – Nessuno dei Paesi occidentali avrebbe mai pensato, neanche con tutta la possibile immaginazione, di trascinare Israele davanti alla Corte Internazionale di Giustizia. C’è voluto il coraggio del Sudafrica, Paese provato da decenni di amara oppressione dell’“apartheid”, per farlo.
Dall’11 gennaio Israele siede al banco degli imputati all’Aja. Nè avrebbe potuto esimersi data la rilevanza della causa. Chiamato ad esporre la propria tesi difensiva, Israele si trova ora costretto – per obbligo imposto dalla Storia – ad affrontare un processo nel quale mai avrebbe immaginato di trovarsi come “imputato” e non quale vittima.
Per fortuna il Sudafrica non è solo in questa iniziativa che potremmo ben definire epocale per portato storico, se non anche pericolosa per certi sotterranei interessi politici curati dai potenti servizi segreti del Mossad. Moltissimi Paesi, tra cui quelli della Lega Araba, il Cile, il Brasile, l’Iran e tanti altri del Sud del mondo si sono allineati sulla posizione sudafricana costituendo insieme un corpo di opinione capace, per dimensione e intensità di ruolo dei rispettivi soggetti, di influire in ogni caso, e indipendentemente dall’esito del processo, sugli orientamenti futuri della Comunità internazionale.
Ma al riguardo, e per meglio comprendere i limiti e i possibili esiti dell’azione giudiziaria, vale forse la pena di svolgere una riflessione più approfondita su tale episodio. Una riflessione utile anche in vista di sfatare alcuni luoghi comuni che oggi circolano con certa insistenza sviando il giudizio obiettivo e spassionato della coscienza dalle giuste direttrici del pensiero.
Non c’è dubbio. L’iniziativa sudafricana di accusare Israele per condurre un vero e proprio genocidio nella Striscia di Gaza, interpreta fondatamente il sentimento prevalente che oggi si percepisce in una Comunità internazionale esterrefatta davanti alla efferatezza della reazione israeliana. Reazione giudicata decisamente squilibrata rispetto al diritto, seppure legittimo, dello Stato di Israele di garantirsi una propria difesa. La guerra, così come viene condotta dall’Esercito israeliano dall’indomani dell’attacco di Hamas del 7 ottobre, appare, infatti, a ben guardarne le modalità, del tutto indiscriminata colpendo indifferentemente obiettivi palestinesi ritenuti da Tel Aviv al contempo civili e militari (o meglio “terroristi”), ma anche soggetti estranei ed indipendenti come funzionari delle Nazioni Unite, personale medico e giornalisti stranieri. Da parte israeliana nessuna distinzione è di fatto ammessa, nessuna scriminante viene accettata che possa escludere dall’azione militare donne, anziani e bambini. Questi sono semplicemente “danni collaterali”; ed è questa la versione accreditata. Ma, rapportando le operazioni dell’Esercito all’entità della popolazione palestinese e al brevissimo arco temporale in cui esse si stanno svolgendo, i loro effetti non sono solo disastrosi, ma anche brutali ed impietosi. Oltre 23.000 le vittime civili ad oggi contate, di cui il 40% bambini, con in aggiunta la distruzione di un immenso patrimonio immobiliare che ha reso gran parte di Gaza inabitabile e a rischio di pericolosissime epidemie.
Certo, si potrebbe obiettare – cosa questa da cui la dirigenza israeliana non certo si astiene – è in gioco la sicurezza dello Stato di Israele e, pertanto, il suo diritto all’auto-difesa! Ma, pur riconoscendosi un tale diritto, non è ammissibile sotto nessun profilo, né giuridico e tanto meno umanitario, che uno Stato nel condurre una guerra non rispetti le fondamentali regole che disciplinano il comportamento delle unità militari e lo stesso uso della forza!
Innanzitutto sovviene l’obbligo, nel reagire ad un atto di violenza del nemico, di mantenere la rappresaglia entro i limiti della proporzionalità rispetto al danno ricevuto. Ebbene, nel caso in disamina è da osservare in primo luogo come l’attacco di Hamas del 7 ottobre si ponga non come un evento isolato e avulso da una situazione di normalità di rapporti, bensì come atto bellico perpetrato da forze insurrezionali nel contesto di un conflitto per il quale mai le parti avevano prima concluso un accordo di “cessate-il-fuoco” o per il quale vi fossero fatti e circostanze concludenti idonei ad indurre a credere ad una cessazione delle ostilità. Su queste premesse ecco allora che la reazione israeliana appare per entità del tutto ingiustificata, in quanto carente degli unici elementi che la potrebbero validamente ammettere: la proporzionalità e l’adeguatezza della risposta. Ma la rappresaglia incontra anche un altro limite, e pure rilevante, sul piano giuridico; ed è quello imposto dal Diritto umanitario. Il rispetto dei civili è un dovere imprescindibile dello Stato belligerante che viene contemplato da precise Convenzioni internazionali (Convenzione dell’Aja del 1907, di Ginevra del 1949 ed altre affini normative del Diritto internazionale consuetudinario), con l’aggravante, nel caso di Israele, di condurre le operazioni militari su territori già indiscutibilmente definiti da diversi atti delle Nazioni Unite, e dalla stessa Corte Internazionale di Giustizia (2004), come “occupati”. Una circostanza, quest’ultima, che pone a carico della Potenza occupante tutta una serie di doveri e di regole di comportamento a tutela e protezione della popolazione civile.
Dunque, è sulla base di questi elementi di fatto e di diritto che sembrerebbe chiaramente confermarsi per la parte israeliana una intenzionalità genocidaria, ovvero la volontà di una persecuzione nei confronti del popolo palestinese resa peraltro manifesta (quale istigazione al genocidio) da una moltitudine di dichiarazioni – oltre che da fatti e circostanze comprovabili – rilasciate da alti esponenti dello stesso Governo israeliano. Ricordiamo la recente descrizione dei palestinesi fatta dal Ministro della Difesa Gallant come “animali umani”, o le dichiarazioni offensive esternate da Bezalel Smotich e Itamar Ben Gvir, del pari Ministri di Governo, che hanno provocato indignate reazioni a livello internazionale, come pure quelle di Ayelet Shaked, divenuta Ministro della Giustizia, la quale già nel 2013 affermava come fosse auspicabile uccidere tutte le donne palestinesi resistenti all’occupazione al fine di evitare che partorissero “altri piccoli serpenti”!
Ma è soprattutto il progetto ventilato dal Governo israeliano di promuovere una deportazione (eufemisticamente definita “migrazione volontaria”) dei palestinesi verso altri Paesi – come il Congo ed altri dell’Africa sub-sahariana – che verrebbe ad integrare più compiutamente la fattispecie di genocidio fatta oggetto di accusa presso la Corte dell’Aja. Genocidio da intendersi perciò non solo come annientamento fisico di un popolo, ma anche come distruzione della sua identità etnica e culturale.
Che un progetto del genere possa essere effettivamente concepito e attuato da parte israeliana non è da escludere. Del resto punterebbe a cancellare l’ipotesi di uno Stato palestinese una prevalente corrente di pensiero di cui si farebbe interprete il MISGAV (Istituto per la Sicurezza Nazionale e di Strategia Sionista) un “think tank” legato, peraltro in via preferenziale, proprio alla figura di Netanyahu e alla sfera dei suoi più intimi affiliati.
Sul piano più generale è, poi, da osservare che di certo il processo innanzi la Corte di Giustizia non si presenterà immune da difficoltà ed intralci. E’ intuibile, infatti, come la procedura, già di per sé complessa sul piano tecnico, rischi di venire probabilmente aggravata da interferenze politiche che metteranno in gioco la imparzialità dei giudici, i quali, mai come in questo caso di così forte rilievo storico e politico, si vedranno tirati per la toga dalla parte del più forte.
Sarà indubbiamente una battaglia dura quella che le parti si apprestano a combattere; e non solo per i profili di merito dell’accusa, ma anche per una conveniente gestione delle procedure legate alla figura e ruolo dei giudici, con riferimento alle scadenze dei mandati, alle loro nomine e attinenze nazionali. Un giudice in sostituzione dell’altro può fare decisamente la differenza! Nel Diritto internazionale del resto non c’è la figura del giudice naturale precostituito per legge. Dunque, i profili politici non mancano. Anzi, sono prevalenti in molti casi, e né sfuggirebbe a questa regola il processo contro Israele per il quale il capo d’accusa (genocidio) è già stato qualificato – non senza spavalda superficialità – come “irrilevante e inutile” dal Segretario di Stato americano Antony Blinken. Ciò nonostante, l’impatto emotivo ed etico del processo rimarrà e resterà nella Storia qualunque sia la sentenza della Corte. Esiste un quadro di fondo pregiudiziale al quale il giudizio sui fatti, comunque li si voglia valutare, non potrà sfuggire. Sarà, infatti, la stessa messa in stato di accusa a segnare una svolta nei sentimenti della Comunità internazionale. Svolta che contribuirà, sia a disarticolare la monoliticità di un mondo occidentale oggi arroccato sull’unipolarismo del pensiero, sia a strutturare una coscienza planetaria più eticamente orientata al rispetto di quella umanità che, come valore imprescindibile della giustizia, esiste e persiste in ogni popolo e individuo.
*Bruno Scapini, già Ambasciatore d’Italia. Presidente Onorario e Consulente Generale. Ass.ne Italo-armena per il Commercio e l’Industria