Israele e la strategia della “protezione”: come Tel Aviv usa i drusi per espandere la sua influenza in Siria


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(Raimondo Schiavone) – La crisi siriana, dopo oltre un decennio di guerra e destabilizzazione, continua a essere il palcoscenico di una lotta geopolitica tra potenze regionali e internazionali. L’ultimo fronte di tensione si sta aprendo nel sud del paese, dove gli scontri a Jaramana offrono a Israele un nuovo pretesto per intervenire. Sotto la maschera della “protezione della comunità drusa”, Tel Aviv sembra muoversi verso un obiettivo ben preciso: consolidare la propria presenza in Siria e, se possibile, assicurarsi una nuova area d’influenza permanente.

Israele ha già usato questa strategia in passato. Negli anni ’80, nel contesto della guerra civile libanese, Tel Aviv si presentò come il difensore delle comunità cristiane del Libano meridionale. Questo portò alla creazione dell’“Esercito del Sud del Libano”, guidato dal generale Antoine Lahad, una milizia filo-israeliana che agiva come braccio armato dello Stato ebraico nell’area. Ma quella che iniziò come una “zona di sicurezza” per proteggere gli alleati cristiani si trasformò rapidamente in una vera e propria occupazione durata quasi vent’anni, con il Sud del Libano sotto controllo militare israeliano fino al 2000.

Oggi, la stessa strategia potrebbe essere applicata in Siria. Gli scontri a Jaramana e nelle aree limitrofe vedono coinvolti Hay’at Tahrir al-Sham (HTS), il gruppo jihadista erede di al-Nusra, e le forze lealiste siriane. In questo contesto, Israele si posiziona come il “protettore” della minoranza drusa, proprio come fece con i cristiani libanesi. Il rischio è evidente: ciò che inizia come un presunto intervento umanitario potrebbe trasformarsi in una nuova occupazione.

Le dichiarazioni provenienti dai media israeliani non lasciano spazio a dubbi. Alcuni analisti e commentatori ebraici hanno apertamente affermato che l’occupazione del sud della Siria sarebbe un “grande risultato” per Israele. Questo perché garantirebbe a Tel Aviv il controllo di un’area strategica ai confini con il Golan, permettendo di mantenere sotto pressione sia il governo siriano che le forze iraniane e di Hezbollah operanti nella regione.

Il premier israeliano Benjamin Netanyahu ha già inviato segnali chiari: se la situazione a Jaramana non si stabilizza, l’esercito israeliano interverrà direttamente. E quando Israele interviene militarmente, raramente si ritira in tempi brevi. Le operazioni mirate potrebbero trasformarsi in una presenza permanente, consolidando la posizione di Israele nel sud della Siria e aprendo la porta a ulteriori interferenze negli affari interni del paese.

Israele non è nuovo all’uso di strategie indirette per indebolire gli stati arabi confinanti. L’obiettivo non è solo quello di occupare porzioni di territorio, ma di frammentare i paesi nemici per renderli incapaci di opporsi alla supremazia israeliana nella regione.

L’intervento nel sud della Siria potrebbe dunque essere solo il primo passo di un piano più ampio per esercitare influenza diretta su Damasco. Se Tel Aviv riuscisse a stabilire una presenza stabile nell’area, potrebbe condizionare le dinamiche interne siriane, appoggiando milizie locali, frammentando ulteriormente il paese e impedendo la ricostruzione di un governo centrale forte.

La battaglia di Jaramana non è solo una questione locale. È un episodio che potrebbe segnare il futuro assetto geopolitico della Siria. Chi oggi crede che Israele possa intervenire per proteggere i drusi o per stabilizzare il paese, dovrebbe guardare alla storia e comprendere che Tel Aviv agisce sempre in base ai propri interessi strategici.

Se la Siria permette a Israele di guadagnare terreno nel sud, rischia di aprire la porta a un’occupazione che potrebbe durare decenni, proprio come accadde in Libano. E questa volta, la battaglia non riguarderà solo Jaramana, ma l’intero destino della Siria.


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