(Francesco Pisanò) – L’apparente immobilità della monarchia hashemita di Giordania, riguardo la crisi siriana, è la riflessione di problematiche interne che hanno posto in grave pericolo la tenuta della piccola monarchia costituzionale negli ultimi anni.
L’avvento delle primavere arabe non ha risparmiato Amman che nel 2011 ha assistito a numerose proteste di piazza, anche se in tenuta decisamente minore rispetto agli eventi siriani, egiziani o libici. La crisi interna fu lo specchio di un’economia debole e lacerata dalla grande recessione del 2008 a cui il sovrano, re Abdallah II, dovette reagire tempestivamente. Tra le misure prese vi furono il blocco del prezzo della benzina, l’esercizio di una maggiore influenza a livello parlamentare e il tentativo di rivolgersi al Fondo Monetario Internazionale ed Unione Europea per aiuti economici. Per uno Stato la cui economia si basa principalmente sul turismo, inoltre, lo scoppio della crisi siriana a la crescita del fondamentalismo islamico rappresentarono due veri e propri fatti cruciali a livello di assetto finanziario nazionale.
In questo clima interno così instabile diventa chiara la strategia attendista giordana. Nonostante le numerosi voci governative e militari che chiedono un ruolo più incisivo in Siria, la monarchia è riuscita finora ad evitare una guerra che viene considerata come “estranea alla Giordania”, così come affermato dalla stessa casata, nonostante i numerosi interessi e valori nazionali in gioco. Questo principalmente per evitare ripercussioni geopolitiche, bramate dallo Stato Islamico che più di una volta ha tentato di destabilizzare la monarchia, anche attraverso attacchi diretti od indiretti al confine. Un clima di insicurezza nel piccolo Stato arabo rappresenterebbe il raggiungimento di un obiettivo fondamentale per il Califfato, che otterrebbe un allargamento dei terreno di scontro; un possibile safe haven per i propri militanti in fuga dall’avanzata militare del regime siriano.
L’apparente “neutralità” della Giordania, che comunque ha fornito supporto logistico e training militare alla coalizione e ai ribelli anti-Assad, infatti, rimase tale nonostante la barbara uccisione del pilota di jet , Muad Kasasbeah, arso vivo nel 2005.
L’esecuzione del pilota fu una scelta più politica che di necessità. Al-Bagdadi assassinò il soldato nonostante Amman avesse espresso volontà nel trattare e aperto canali indiretti con i terroristi contro il parere della Comunità Internazionale.
Tra le ragioni del gesto vi è il tentativo ultimo di provocare la Giordania e obbligarla all’intervento armato.
L’esecuzione si inserisce all’interno di una cornice nazionale, che gioca sul delicato sistema clientelare e tribale ancora fortemente presente nel territorio giordano. Muad Kasasbeah, infatti, apparteneva alla potente tribù della città di Karak, nella zona centrale del paese. In molti hanno visto la scesa a patti di Abd Allah II come un estremo tentativo di evitare ripercussioni interne. Più che puro atto barbarico, la morte del pilota fu un mezzo politico. La Giordania, però, deve evitare a tutti i costi l’interferenza nella crisi siriana poiché andrebbe trovandosi, a quel punto, tra due fuochi incrociati: quello sciita di Bashar Al-Assad e quello sunnita estremista di ISIS e Al-Nusra.