(Rodrigo Carrega) – Ecco che si ricomincia. Ogni anno ci ritroviamo a sopportare ipocrite quanto paradossali prediche e sermoni riguardo l’importanza del ricordo. A qualche giorno di distanza dalla giornata della memoria occorre però fare qualche riflessione.
Ma cosa vuol dire ricordare? Etimologicamente, la parola deriva dal latino “recordari”, la quale richiama a sua volta la parola “cor”, cuore, poiché per i romani la memoria risiedeva proprio nel cuore. Quindi l’azione del ricordare è la possibilità di consultare il passato, di interrogarlo, di distendercisi ancora, non per fuggire malati di nostalgia, ma per capire ed essere capaci di cura e di responsabilità, nel presente come nel futuro. Per tenere alta la consapevolezza di chi siamo, il percorso dal quale proveniamo e fin dove abbiamo la possibilità di spingerci. Per non perdere niente di quello che naturalmente esce dalla nostra vita. Niente e nessuno.
Siamo sicuri che oggi, come negli ultimi anni, il significato di tale ricorrenza sia questo? Per il mio modestissimo quanto insignificante parere, no. Ed è una manovra pericolosa quella che si sta svolgendo, soprattutto in un contesto aggravato nuovamente dai più recenti e drammatici fatti di Parigi. Poiché in una fase storica di profonda crisi, finanziaria, certo, ma appunto per questo influente in ogni ambito dell’esistenza umana e riguardo la qualità della vita stessa, far passare il messaggio che sono riproposte dinamiche del passato che hanno portato alle più inumane tragedie può giustificare qualsiasi cosa. Solo l’anno scorso, nei giorni che precedevano il 27 Gennaio, usando in maniera oscenamente strumentale la tragedia di “Charlie Hebdo” e del Kosher market, da parte di molti esponenti della comunità ebraica europea si è ricominciato a parlare di un concetto che aveva abbandonato il lessico politico e l’attenzione dell’opinione pubblica nazionale e continentale: il concetto di “minoranza”. Fatto da non sottovalutare, poiché la creazione stessa dello Stato d’Israele si basa su tale concetto. Ben prima del 1948. Ed è un gioco molto sottile.
Sì, perché basta semplicemente prendere in mano qualsiasi libro che tratti la storia del sionismo o la questione israelo-palestinese per capire che l’intento di far ritorno ed insediarsi capillarmente nella Terra Promessa esula dal semplice ambito religioso per trasformarsi in un vero e proprio obiettivo politico del sionismo e in particolar modo dei laici nazionalisti guidati da Theodor Herzl già negli ultimi decenni del XIX secolo. Tale volontà comportò nella pratica la nascita e l’organizzazione di veri e propri flussi migratori crescenti a partire dal 1882 verso la Palestina, allora sotto il controllo ottomano. Palestina che all’epoca contava fra i suoi abitanti poco più di 20.000 ebrei. Fra il 1882 e il 1947 se ne aggiunsero altri 450.000. Questi processi in lingua ebraica vennero chiamati “Aliyah” ovvero “ascesa”, il che già dovrebbe far riflettere.
Alla vigilia della proclamazione dello Stato d’Israele, quindi, la composizione demografica della Palestina fu radicalmente mutata se si raffrontano i dati dei censimenti del 1922 e del 1947. Il primo indicava circa 700.000 abitanti, dei quali il 77% di musulmani e l’11% di ebrei. Nel secondo, le tendenze sono praticamente rovesciate. Su 1.600.000 abitanti gli ebrei costituivano il 45% del totale. Ciò grazie anche all’accondiscendenza britannica, che vedeva nella Palestina un “focolare nazionale ebraico”. La situazione divenne drammatica dopo il ’48, e fino al 1951 dove il numero di migranti giunse a 700.000. Più di quelli trasferitisi tra il 1882 e il ’47. Con l’avvento della prima guerra arabo-israeliana, poi, circa 800.000 arabo palestinesi furono costretti a trovare rifugio nei paesi circostanti, dopo le espulsioni forzate.
Quindi da minoranza perseguitata e sterminata, adesso la comunità sionista può applicare i suoi dettami all’interno di una terra che non le appartiene, ma nella quale è maggioranza. Ed è talmente cruciale questo punto che è il fondamento costitutivo e costituzionale dello Stato d’Israele. La patria degli ebrei per gli ebrei. Nella stessa “dichiarazione costitutiva” si accorda il pieno e totale beneplacito all’immigrazione ebraica. Basti pensare alla legge del ritorno. Ma ancora più interessante è la “Legge fondamentale sulla libertà e la dignità umana” varata nel 1992 e che sancisce i valori sui quali Israele pone le proprie basi morali ed etiche. Uno stato ebraico e “democratico” che garantisce il diritto alla vita, alla libertà, alla privacy e alla proprietà. Ma tra questi non compare il diritto all’uguaglianza di tutti i cittadini senza discriminazione di razza o religione. Lo Stato d’Israele, dunque ha sempre fatto perno, fin dall’inizio, sull’affermazione del primato degli ebrei sui non ebrei, declinando la questione in termini politici, sociali e civili. Basti pensare alle numerose leggi che impediscono agli arabo israeliani di esercitare a pieno il diritto di proprietà sulle proprie terre. O a come sono trattati gli immigrati somali, o ancora, i drusi. La questione del primato dunque si pone in termini qualitativi, oltre che quantitativi. Non ci si limita ad enfatizzare la contrapposizione etnica e religiosa. Si tratta di preservare la volontà della nazione ebraica come maggioranza all’interno dei confini israeliani (e quindi palestinesi) a discapito di chi, pur possedendo la cittadinanza israeliana, l’ “hezrahut”, non è cittadino ebraico. L’incubo di una costante erosione della popolazione ebraica rende necessaria la modifica costante della comune base di riferimento della minoranza e della maggioranza. Ed è notizia recente, riportata dal sito “israele.net” che quanto emerge da un sondaggio commissionato al Sampling Consultation and Research Center, i cui risultati sono stati illustrati due giorni fa (lunedì 25/1) ai ministri israeliani da Yaakov Hagoel, vice presidente dell’Organizzazione Sionistica Mondiale, confermi tutto ciò. Ovvero:
“A causa della crescente preoccupazione per la sicurezza degli ebrei d’Europa – ha spiegato Hagoel – abbiamo istituito una commissione con il compito di affrontare gli ostacoli all’immigrazione in Israele, e abbiamo chiesto di verificare quale fosse la posizione dell’opinione pubblica israeliana in questo senso. […] Alla luce dell’allarmante ondata di antisemitismo che ha investito l’Europa, la maggioranza degli israeliani approva l’idea di offrire ai nuovi immigrati maggiori benefici economici e occupazionali anche a scapito degli stessi israeliani già residenti. […] In questo contesto, il dato sicuramente più significativo è la percentuale di israeliani che si dicono favorevoli a concedere vantaggi speciali ai nuovi immigrati. Ben l’83% degli intervistati nel sondaggio ha espresso la convinzione che lo stato di Israele dovrebbe intraprendere azioni più incisive nel mercato del lavoro con l’obiettivo di riconoscere benefici speciali ai nuovi immigrati”
(cfr.http://www.israele.net/sondaggio-la-maggior-parte-degli-israeliani-disposta-a-seri-sacrifici-pur-di-accogliere-i-nuovi-immigrati)
Ecco dunque che per preservare la sicurezza della propria gente si ergono muri sempre più lunghi, sempre più alti, grazie ai quali si occupano sempre più territori. E poco importa se ciò determina la confisca di migliaia di “dunam” a discapito delle popolazioni arabe. Poco importa se interi villaggi vengono isolati dalle altre comunità o separano le case dai terreni agricoli, fonte primaria per la sopravvivenza delle famiglie arabe. E’ questo il razzismo. Quello vero. Quello che subiscono da quasi settant’anni la popolazione palestinese, sotto gli occhi ciechi ed indifferenti, se non complici dell’Occidente.
Per non parlare della discutibile linea adottata dallo stato ebraico in politica estera durante questi ultimi anni. Linea che ha visto stringere i rapporti con paesi come l’Arabia Saudita e con movimenti da questa ispirati e finanziati per sconvolgere le carte in tavola nello scacchiere mediorientale. Ogni carta, anche truccata, è valida per raggiungere gli scopi di Israele nella regione. Secondo un rapporto delle Nazioni Unite, il governo di Tel Aviv ha supportato le opposizioni armate contro il Presidente siriano Assad curando dei feriti nei propri ospedali, fornendo a questi gruppi “assistenza umanitaria” attraverso un canale di comunicazioni aperto con il sud del paese. E non sono ipotesi di un detrattore. Ovunque, anche semplicemente su Youtube ci sono numerosi video che testimoniano e confermano questi episodi. In questo video nello specifico, ad esempio, un miliziano del Free Syrian Army in cura presso l’ospedale di Safad (città situata nel nord di Israele) intervistato da Simon Ostrovsky, giornalista di Vice News, afferma di essere arrivato al confine israeliano in macchina e da lì è bastato “chiamarli” per essere trasportato in ospedale insieme ad un suo commilitone. Lo stesso miliziano, quando gli viene chiesto contro chi combatta, se con Jabhat Al Nusra (ramo siriano di Al Qaeda ed alleato dell’Isis) o l’esercito regolare, risponde senza esitazione contro l’esercito. Anzi, i miliziani di Al Nusra sono degli alleati. “Non sono così male”. Nel rapporto, presentato al Consiglio di Sicurezza, si indicano casi in cui le forze dell’Undof (presenti nella zona cuscinetto dal 1974, l’anno successivo alla guerra dello Yom Kippur) hanno visto soldati dell’esercito israeliano permettere il passaggio dentro il proprio territorio di decine di ribelli e discutere al confine con membri delle opposizioni armate nella cosiddetta Posizione 85, a una ventina di km da Quneitra.
La Posizione 85, secondo l’Onu, sarebbe usata come passaggio per i feriti siriani. Il governo israeliano ha sempre rifiutato di indicare l’identità di questi miliziani. Non solo. Sempre secondo il rapporto in almeno un occasione l’Undof ha assistito ad una consegna di materiale non specificato effettuata dalle truppe di Tel Aviv ad alcuni membri delle opposizioni armate. Ma si potrebbe citare anche la storia di Hillah Chalabi, un giovane soldato druso di 19 anni, di stanza nel Golan, che ha denunciato i contatti tra le truppe israeliane e le milizie di Al Nusra, il passaggio di rifornimenti, l’ausilio a miliziani filo jihadisti trasportati in Israele per essere curati. Hillal è stato prontamente incarcerato. Ma queste storie sono state riportate sulla stampa internazionale, confermando le tesi già sostenute in recenti rapporti dei peacekeeper dell’Onu di stanza nel Golan, ovvero di questi contatti regolari tra la forze armate israeliane e miliziani armati provenienti dalla Siria.
Tutto ciò se non altro dimostra che Israele, che vuole presentarsi come l’unico baluardo di democrazia in medioriente e sotto costante minaccia di estinzione, gioca la partita geopolitica con uno scellerato cinismo e una sconfinata fiducia nella propria forza, dovuta alla sicurezza dell’impunità delle proprie azioni. E’ questo ciò che più fa indignare. Vedere sfruttata la memoria di milioni di vittime per un cinico e squallido ragionamento di opportunità politica da parte d’Israele e della maggior parte delle comunità ebraiche sparse in tutto il mondo. Oggi piangiamo la Shoà (LA catastrofe, in ebraico) ed immediatamente associamo quelle immagini ad Israele. Ma non è così, non deve essere questo il messaggio.
Se potesse, chi è morto nei campi di concentramento e di sterminio, chi è stato veramente vittima dell’odio umano, si rifiuterebbe di far parte di uno stato come quello israeliano. Uno stato nel quale uno degli ultimi ministri degli esteri, Avigdor Lieberman, proponeva di eliminare con un arsenale atomico gli arabi, di vietare i matrimoni misti ebrei-musulmani o la deportazione degli arabi dai confini israeliani. Uno stato che ha visto alla propria guida un uomo, Ariel Sharon, complice della strage di Sabra e Shatila, che il 16 dicembre 1982 l’Assemblea generale delle Nazioni Unite definì “un atto di genocidio” (risoluzione 37/123, sezione D). Uno stato che trucida donne e bambini con il fosforo bianco. Uno stato che si permette di espellere persone come Hedy Epstein, ebrea sopravvissuta all’olocausto. Uno stato il cui rappresentante principale sfila per le strade di Parigi in favore della libertà di espressione e nel solo mese di Luglio del 2014 ha ucciso 17 giornalisti provenienti da tutto il mondo sotto i bombardamenti nei quali sono morte 2000 persone, neanche a dirlo, la stragrande maggioranza civili e soprattutto bambini. Uno stato che, ogni qualvolta l’Esercito Arabo Siriano compie dei significativi progressi contro le bande di terroristi che stanno affliggendo il paese da 5 anni, interviene in favore di questi ultimi ed uccidendo con attacchi mirati gli esponenti più essenziali alla lotta al terrorismo. Uomini e ragazzi che affrontano la peste nera dell’Isis e dei suoi alleati sul campo. Faccia a faccia. Colpo su colpo. Un paese il cui primo ministro afferma che la volontà di Hitler non fosse quella di sterminare gli ebrei, ma di allontanarli, definendo il gran muftì Haj Amin al-Husseini il principale architetto della soluzione finale (pensate se una dichiarazione del genere fosse stata fatta dal Salvini o dall’esponente di Casa Pound di turno). E si potrebbe andare avanti per molto.
Chiunque abbia mantenuto un briciolo di onestà intellettuale dovrebbe rifiutare il messaggio di ipocrisia che si cela sotto questa ricorrenza ed informarsi su ciò che succede in questa delicata area del mondo, che è stata la culla della civiltà. E’ la conoscenza e l’essere coscienti che possono portare ad una mobilitazione, quanto meno d’opinione. Non è più tollerabile l’arroganza con la quale una tragedia che ha segnato le sorti del mondo contemporaneo venga così beceramente sfruttata, offendendo la sofferenza e la morte di quelle persone, che diventano loro malgrado un’arma ideologica. E’ dunque questa la questione che si deve porre al centro del dibattito. Come l’indifferenza ha permesso di arrivare all’olocausto, adesso sta perpetrando un massacro che non vede fine. Quale sia il ruolo dello stato d’Israele e dei suoi sostenitori, adesso. Quali le loro responsabilità. In che modo è possibile attivarsi per porre fine a questa tragedia. Più che giornata della memoria dovremmo denominarla giornata della riflessione. O dell’ipocrisia.