La nuova Turchia di Erdogan: la sintesi del peggio


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di Bruno Scapini

La nomina di Binali Yildirim a Primo Ministro della Turchia segna certamente una svolta nel corso politico di Ankara. Ma nulla di strano denoterebbe il fatto se esso non fosse collegato con il contestuale allontanamento di Ahmet Davutoglu – mascherato da non meglio motivate dimissioni – capo di un esecutivo non più gradito al Presidente Erdogan.

Nulla capita in politica senza ragioni. E anche in questo caso, la messa al vaglio critico della mossa presidenziale evidenzia chiaramente come il crescente dissenso di Davutoglu verso la linea politica adottata da Erdogan – volta a concentrare il potere in un presidenzialismo piramidale sempre più dispotico -, spieghi e giustifichi la necessità di un cambiamento al vertice del Governo onde spianare la strada a quel programma di riforme costituzionali che Erdogan intenderebbe attuare. Riforme per una maggiore democrazia ? Per garantire egual reddito di cittadinanza per tutte le comunità etniche del Paese ? Per restituire più libertà civiche, di stampa e di espressione ? No. Nulla di tutto questo. Le riforme sono concepite unicamente nella prospettiva di rafforzare il ruolo presidenziale in tutta l’economica del potere, soffocando le opposizioni con metodi ormai ben noti fin dal tempo degli Ottomani, e per contenere in una misura ritenuta funzionale al regime le libertà civiche e di espressione.

Elemento fondante in questo progetto riformistico proprio l’uomo di scontata devozione intellettuale e di provata lealtà politica: Binali Yildirim. Questi, già Ministro dei Trasporti, viene a riunire oggi – complice un Parlamento omertosamente ossequioso – l’incarico di Primo Ministro con quello di Segretario dell’AKP, il Partito del Presidente. Un’architettura istituzionale chiaramente votata al cambiamento e che punta per la attuazione della riforma su una strategica gestione dell’asse determinatosi tra il Partito AKP islamista e le formazioni ispirate al nazionalismo più avanzato di matrice kemalista. Yildirim, in questo quadro evolutivo che si sta prospettando per il Paese, sarà la giusta “cerniera” , il perno strategico sul quale costruire le alleanze per un sostegno al nuovo presidenzialismo di Erdogan.

Che si vada in direzione di un regime dispotico in Turchia non sembra esservi dubbio. I segni prodromici di questo cambiamento sono già sotto gli occhi di tutti: diffusa violazione dei Diritti Umani, giornalisti di opposizione incarcerati senza processo, parlamentari curdi privati delle immunità istituzionali, mantenimento di una definizione ampia di “terrorismo” funzionale a una estensiva repressione del dissenso, bombardamenti sui villaggi curdi per sospetta colleganza con il PKK. Tutti elementi, questi, chiaramente indicativi della rinnovata direzione di marcia impressa al proprio programma politico da un Presidente sempre più determinato a trasformare la Turchia in un regime autoritario cogliendo quel che di peggio si possa trovare nell’orientamento islamico del suo Partito da un lato, e , dall’ altro, nella spregiudicata arroganza di un nazionalismo turco peraltro mai sopitosi nelle istituzioni del Paese.

Un cambiamento, quello perseguito da Erdogan, che poi non sembra nemmeno destare preoccupazione in Occidente per i risvolti che potrebbe avere in politica estera. E’ evidente, infatti, come il progetto di una rinascita nazionale esemplato sull’antico modello ottomano non mancherebbe di includere anche un processo di accentuazione del ruolo di Ankara sul piano internazionale. La guerra in Siria, l’instabilità dell’Iraq, la lotta al terrorismo dell’ISIS,

l’Afghanistan, le criticità del Medio Oriente, la situazione in Libia e la questione dei rifugiati sono tutte contingenze di cui Erdogan ben intende valersi per ricrearsi un protagonismo da luci della ribalta; e il tutto nell’ottica di ottenere il massimo risultato in termini sia di compiacenza occidentale, ed europea in particolare, sia di accettazione asservita dei suoi sudditi. Così la Merkel va in Turchia non per dialogare di democrazia e di adeguamento di Ankara agli standard europei, ma per parlare di rifugiati ed evitare il ripetersi in futuro di destabilizzanti vie di fuga balcaniche. Così gli altri Paesi europei, e la stessa America, non sembrano per niente spaventati da questa pericolosa deriva di Erdogan e dialogano con lui non per indurlo ad ammorbidire le sue posizioni nei confronti delle comunità curde, né perchè realizzi nei fatti quella politica di “buon vicinato” annunciata ad inizio mandato, ma solo perchè accolga i rifugiati scomodi all’ Europa. Un’Europa che peraltro offre un lauto compenso economico sottostando al ricatto di un Presidente ormai senza pudore che minaccia – in caso non si concedesse l’abolizione del visto per i cittadini turchi – di scatenare nuove ondate di migranti pronte ad invaderla

Il momento è certamente favorevole per la Turchia. Una Turchia pronta ad approfittare della debolezza di un’Europa che non sa intravvedere il proprio futuro, che, priva di una prospettiva di crescita, si lascia compromettere nella sua unità da divisionismi interni, da mancanza di reciproca fiducia e da una cronica incapacità di trovare una base condivisa per una azione comune. Ed Erdogan tutto questo l’ha ben compreso. Lo ha compreso al punto da permettersi discorsi di potenza, tanto arroganti nei modi, quanto offensivi per la dignità degli Occidentali. E intanto in Europa, fingendoci ignari di quel che succede in Turchia, tiriamo un respiro di sollievo per la vittoria in Austria di van der Bellen, per le assicurazioni di Cameron a sostenere il mantenimento di Londra nella U.E., come anche per lo speranzoso abbraccio di Papa Francesco con il Grand Imam sunnita di Al Azhar.

 

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