Intervista a Tariq Dana. Analista palestinese di Jadaliyya e professore all’Università di Hebron: il movimento islamista ha bisogno della riconciliazione. Abbas perde consenso popolare e guarda solo alla comunità internazionale
(Chiara Cruciani – Il Manifesto) – Ieri il popolo palestinese della Cisgiordania e di Gerusalemme è sceso in piazza per manifestare solidarietà ai gazawi. Decine i feriti. Nella Città Santa in piazza sono scesi i ragazzi di Shuafat e, dall’altra parte del muro, quelli di Anata e Abu Dis (villaggi di Gerusalemme Est, ma ora separati dalla barriera israeliana): alle pietre e le molotov i soldati israeliani hanno risposto con lacrimogeni e proiettili di gomma.
Scene simili in Cisgiordania: a Ramallah i manifestanti hanno bloccato la strada che conduce alla base militare nel villaggio di Sinjel; a nord, a Kafr Malik, è stato preso di mira un posto di blocco, incendiato dalle molotov. Nel campo profughi di Qalandiya il fuoco è stato appiccato alla torretta militare: la reazione israeliana si è tradotta nell’utilizzo di proiettili veri. A sud della Cisgiordania, scontri a Betlemme, Beit Ummar, nel campo profughi di Al Arroub e in quello di al-Fawwar dopo la preghiera del venerdì: decine i feriti.
La scena peggiore, però, ha avuto Hebron come teatro: la manifestazione per Gaza è stata fermata dalla polizia palestinese, prima che i giovani potessero raggiungere i checkpoint israeliani. Uno scenario che si ripete ormai sempre più spesso e infiamma la rabbia nei confronti dell’Autorità Nazionale Palestinese, da molti accusata di tradimento. Ne parliamo con Tariq Dana, analista palestinese di Jadaliyya e professore all’Università di Hebron.
Come sta reagendo, all’interno e sul palcoscenico internazionale, Ramallah all’offensiva?
Basta ascoltare quanto detto dal ministro degli Esteri al-Maliki: Israele dovrebbe colpire le infrastrutture di Hamas evitando vittime civili. Ramallah vuol far credere al popolo palestinese che Hamas sia un nemico peggiore di Israele. L’azione sul terreno, in particolare la cooperazione alla sicurezza, visibile questi giorni nella repressione delle proteste, è lo specchio della politica del presidente Abbas. Una diffamazione della resistenza dipinta come minaccia alla stabilità. Guardate a quanto accade in Cisgiordania: l’Anp è l’estensione dell’occupazione israeliana.
Sul piano internazionale, Abbas si limita a minacciare di aderire alla Corte Penale dell’Aja, ma non andrà fino in fondo. La sola azione dell’Anp visibile a noi palestinesi è la repressione nelle strade. Nei discorsi ufficiali di questi giorni, Abbas non si è rivolto mai una volta alla sua gente, ma ha solo inviato messaggi alla comunità internazionale e al governo israeliano.
Il governo di unità nazionale è destinato a fallire?
La palla è nel campo dell’Anp. Hamas non è mai stato tanto debole in termini strategici: non è più in grado di gestire la Striscia, è isolato a livello regionale dopo il crollo della Fratellanza Musulmana in Medio Oriente, non gode più degli ingenti finanziamenti di due anni fa e vive una profonda crisi economica. Non riesce a pagare gli stipendi dei dipendenti pubblici. Hamas non ha altra alternativa che la riconciliazione con Fatah, soprattutto dopo che l’operazione israeliana sarà terminata. Il movimento islamista, se ancora privo di denaro e dell’appoggio di altri governi arabi, non potrà ricostruire Gaza e dovrà appoggiarsi a Ramallah.
L’Anp, a causa della pressione internazionale e israeliana — magari in cambio di una fine dell’offensiva — potrebbe scaricare Hamas e porre fine al processo di riconciliazione. Questo però può provocare un ulteriore calo di consenso: la scelta di abbandonare l’unità con Hamas accenderebbe la miccia della frustrazione interna. In questo caso, il presidente potrebbe proseguire con la riconciliazione, approfittando dalla palese debolezza di Hamas per dettare le condizioni dell’unità nazionale.
Quale la reazione in questo caso del popolo palestinese?
L’unico vero ostacolo alla strategia di Abbas è proprio il popolo palestinese: Hamas ha dalla sua il consenso popolare, che Fatah ha quasi del tutto perso perché ormai piegata sulle posizioni dell’Anp. I leader di Fatah non sono più capaci di reagire o arginare le prese di posizioni e le politiche di Abbas che controlla tutto, dalle finanze alla sicurezza. Fatah è servo dell’Anp, come l’Anp è serva di Israele. Il popolo palestinese ha oggi di fronte a sé due nemici: l’occupazione israeliana e l’Autorità Palestinese. Una situazione più complessa che mai perché la società si deve confrontare con entrambi. Ma quando la rabbia sarà maturata e diventerà concreta, il popolo si solleverà inevitabilmente contro l’ANP, oggi principale ostacolo alla lotta di liberazione.
Fonte: Il Manifesto