(Raimondo Schiavone) – Le luci della ribalta illuminano la scena: Cecilia Sala, l’eccellenza italiana, si confida con i media. Non si tratta di una nuova inchiesta sconvolgente o di un reportage che cambierà le sorti dell’umanità. No, il tema è ben più profondo: il dramma della mancanza di un guanciale pulito su cui posare il capo. Notti insonni, telefonate alla famiglia, e un’intera nazione col fiato sospeso. Come se l’assenza di un cuscino fresco fosse il nuovo indicatore della tenuta democratica globale.
La stampa nazionale, sempre pronta a inchinarsi alla “voce del coraggio”, non perde un colpo. Approfondimenti, speciali, analisi su questa giovane senza laurea ma con il piglio da opinionista infallibile, politicamente ben piazzata sul fronte sionista. L’eccellenza italiana, come il vino e il cotechino, dicono. Poco importa se il “coraggio” è filtrato da un copione ben schierato e un’agenda precisa. Per Cecilia Sala, ci si mobilita.
E intanto, a Gaza, Abu Safiya. Chi? Ah, sì, il medico di Gaza. Uno dei tanti, si potrebbe dire, se non fosse che Abu Safiya è scomparso, forse detenuto, forse torturato. Forse nemmeno più in vita. Non ci sono titoli per lui. Nessuna trasmissione speciale. Nessun hashtag di solidarietà. Perché Abu Safiya non ha un guanciale da lamentare. Abu Safiya è solo uno dei tanti, carne da macello in un conflitto che si preferisce ignorare.
Del resto, Abu Safiya non è “un’eccellenza”. Non beve vino pregiato, non cena a eventi glamour, e non ha un microfono pronto ad amplificarne la voce. È solo un medico palestinese che ha dedicato la sua vita a salvare quella degli altri. Ma per lui, e per quelli come lui, c’è solo silenzio.
E così, mentre ci preoccupiamo del sonno di Cecilia Sala, il mondo continua a voltare le spalle a chi, come Abu Safiya, combatte senza guanciale, senza microfoni, senza riflettori. Perché non serve essere un’eccellenza per meritare giustizia. Basta essere umani. Ma, evidentemente, non per tutti.