(Raimondo Schiavone – Damasco) – Arriva una telefonata al mio amico Talal Khrais, un uomo che questa guerra l’ha vissuta davvero in prima linea, passando più tempo in Siria che nel suo Libano.
Al telefono il responsabile della comunicazione del Campo Palestinese di Yarmuk, il più grande campo profughi palestinese fuori dalla striscia di Gaza, ci informa che ci stanno aspettando, vogliono farci visitare il campo. Ad attenderci c’è Abu Akram, insieme all’amico medico che lavora nel campo, il dottor Maher. La prima visita è quella al pronto soccorso: due stanze in un sottoscala, una brandina e due letti, poche medicine.
“I terroristi hanno distrutto l’ospedale del campo”, racconta il medico. Poco dopo visitiamo quel che resta del nosocomio, un cumulo di macerie. “Ci siamo attrezzati come abbiamo potuto. Qui facciamo il primo intervento, feriti, bambini ammalati, donne, uomini. Siamo solo io e mia moglie, anche lei è medico”. Ci offrono un caffè amaro, mentre raccontano, appartengono al Fronte Popolare, lui ha studiato in Unione Sovietica, ma dopo è tornato in patria (si fa per dire) è rimasto a combattere con i suoi compagni palestinesi, prestando la sua opera di medico.
“Altri medici sono stati costretti a scappare, gli jihadisti volevano che lavorassimo per loro, chi si è rifiutato, è scappato oppure ha deciso di servire la causa, come abbiamo fatto io e mia moglie”. Arriva anche il responsabile del Campo Assaad Al Assad, ci accompagna a visitare l’ospedale, se così lo si può definire, una stanza con tre letti e qualche farmaco. “Ora è vuoto – ci racconta il medico Maher – ma in certe giornate abbiamo avuto anche 400 pazienti da medicare e visitare, tutti assiepati in questo spazio ristretto”.
Entriamo nel campo attraverso un passaggio ricavato da un foro in una parete, questo è l’unico accesso sicuro, attraversiamo velocemente una parte scoperta: quella che era prima una piazza e il mercato di ceramiche più importante della città, ora è solo un ammasso di detriti, sono luoghi nei quali si è combattuto a viso aperto per mesi. Ora è rimasto solo un ammasso di macerie, le case che si affacciano sulla piazza sono state colpite, alcune sono completamente distrutte. Passiamo per le vie del campo, i militanti palestinesi armati ci mostrano i segni del combattimento, le armi, le mitragliatrici, i mortai.
Le ambulanze dell’ospedale sono distrutte, i mezzi sono stati portati via dai terroristi, ci portano in un luogo sicuro riparato da sacchi e teloni. Un tavolo, delle sedie di plastica, le loro bandiere, il loro caffè, ci raccontano di quando alcuni palestinesi “traditori” hanno fatto entrare nel campo gli jihadisti. “Hanno portato la distruzione, hanno occupato le case, tenuto in ostaggio intere famiglie”. Il terrore è entrato qui dentro e a portarlo sono stati i nostri fratelli. Ora li stiamo scacciando, altri arretrano e facendo questo distruggono, incendiano le case che lasciano.
Parlano degli aiuti che sarebbero dovuti arrivare al campo, in Italia ho letto di raccolte di fondi destinate a Yarmuk. Comuni e ONG, hanno raccolto risorse, ne chiedo conto al mio interlocutore: “Qui non è arrivato nulla”. Mi vergogno di quella risposta, ancora una volta ci hanno fatto credere di aver raccolto del denaro per aiutare bambini e malati e invece non si sa dove siano finiti i fondi. Soliti sospetti, forse sono nelle mani degli Jihadisti, forse per sostenere quella rivoluzione, che altro non è stata se non uno sterminio di massa. È forte il senso di nausea verso questo Occidente criminale che usa perfino la beneficienza per raggiungere i propri loschi obiettivi politici.
Non c’è tempo per tante chiacchiere, si sentono degli spari, bisogna andar via velocemente, da un palazzo vicino si vede del fumo e si sentono i boati di un’esplosione. I terroristi si ritirano e per coprire la ritirata distruggono le case dove hanno abitato, lasciano cecchini nelle case che sparano all’impazzata. Andiamo via, mi arriva una telefonata dall’Italia, sbaglio marciapiede, non sono coperto, i militanti armati che ci accompagnano mi urlano di andare dall’altra parte, scampato pericolo, si esce dal campo.
Il cuore in gola, non per la paura, ma per la rabbia d’aver vissuto in prima persona, quello che le milizie terroriste hanno compiuto per anni e che noi occidentali abbiamo difeso e armato, emerge anche il forte senso di colpa, forse si poteva fare di più per informare, per far sapere cosa stava realmente accadendo. Del resto, nel settembre 2012, durante la visita a Damasco e a Ma’lula sia il Presidente Assad, che i sacerdoti e i vescovi incontrati ci avevano detto cosa stava accadendo realmente, ma allora l’Occidente era sordo, voleva questa sporca guerra. Ci sono voluti i rapimenti, le decapitazioni pubbliche, i filmati nei quali i Tafkiri mangiavano i cuori degli innocenti, la consegna delle armi chimiche da parte del Governo siriano, per fare in modo che emergesse la verità, per far tacere quei falsi giornalisti che entravano dal confine turco e che per un po’ di notorietà, raccontavano menzogne.
Ora si conosce la verità, ora si sa quali sono le ragioni che hanno condotto alla guerra in Siria, il mondo comincia a essere consapevole dei propri errori e delle atrocità commesse dagli jihadisti. Ci vorrà ancora molto tempo perché si torni alla normalità, perché il sorriso torni sul volto della gente, perché i bambini possano pensare nuovamente al futuro. Ma il tempo non è un problema per il popolo siriano, ha superato il temporale ed ora, con l’apprestarsi del sereno avrà forza e coraggio per ricostruire il proprio futuro.