(Salvatore Lazzara) – L’Europa ricorda i 100 anni dell’inizio del primo grande conflitto mondiale, che Papa Benedetto XV, non esitò a definire “inutile strage” e “carneficina senza senso”. Le innumerevoli celebrazioni, mettono in evidenza le ferite aperte della guerra -che ancora per le conseguenze subite-, in alcuni paesi non sono del tutto rimarginate. Eppure sono passati cento anni! Nel quadro descritto, il Santo Padre Francesco sulla scia del Santo predecessore Giovanni Paolo II, ha deciso di compiere un viaggio nella memoria, nel luogo simbolo dello scoppio della guerra, per lanciare parole di speranza per tutti i popoli, nel nme del Dio della giustizia e della pace. Nei Balcani, le emorragie causate della guerra (1992-1995) appaiono ancora fresche. Una pace, quella siglata dagli accordi di Dayton, che produce, nella comunità croata, un sentimento di ingiustizia. Una cattiva situazione economica, tra disoccupazione e corruzione. E un mosaico religioso sul quale pesano gli interessi di potenze estere, che si tratti dell’attenzione di Mosca sull’ortodossia serba o l’influenza wahabita dei Paesi del Golfo sull’islam autoctono. E’ questo il problematico quadro che Papa Bergoglio trova oggi con un viaggio in giornata a Sarajevo, tentando di portare nella capitale della Bosnia Erzegovina un messaggio di pace e riconciliazione per una convivenza tra le diverse componente etniche e confessionali.
Dopo il viaggio in Albania, l’estate scorsa, il Papa torna dunque nella “periferia” europea dei Balcani. In Bosnia, dove vivono bosniaco-musulmani (approssimativamente il 40%), serbo-ortodossi (circa il 30%) e cattolici croati (circa il 15%), “si lavora per costruire una convivenza pacifica e armonica e il Papa intende portare un messaggio di riconciliazione per la costruzione comune del futuro”, ha detto il portavoce vaticano, padre Federico Lombardi, in un recente briefing di presentazione dell’ottavo viaggio internazionale nell’undicesimo Paese visitato da Francesco, incoraggiando “il desiderio di ricostruire una situazione dove ci sono tuttora conflitti sociali forti” e sostenendo, in particolare, il dialogo interreligioso che “va coltivato e portato avanti con impegno”. Padre Lombardi ha sottolineato, per esempio, che nel percorso che il Papa farà in jeep dallo stadio alla nunziatura, passerà accanto ad alcuni giardini pubblici di Sarajevo dove, durante la guerra jugoslava, vennero seppelliti i morti e dove sono tuttora visibili le tombe. Il motto del viaggio è “Mir Vama”, “La pace sia con voi”. Analizziamo i motivi storici che hanno portato al collasso della civiltà in quei tempi bui e tristi:
L’annessione della Bosnia ed Erzegovina da parte dell’Austria (1908) aveva accentuato in quella area balcanica, abitata prevalentemente da serbi e croati, la presenza di movimenti e gruppi clandestini e terroristici che reclamavano l’annessione alla Serbia. All’interno di questi movimenti matura l’eccidio di Sarajevo, avvenuto il 28 giugno 1914, allorché uno studente irredentista bosniaco, Gravilo Princip, uccise con due colpi di pistola l’arciduca Francesco Ferdinando, erede al trono d’Austria e sua moglie Sofia, in visita nella capitale della Bosnia.
Diamo voce alla storia e ai fatti drammatici che causarono lo scoppio della prima guerra mondiale: alla fine di giugno del 1914, Ferdinando visitò la Bosnia per poter osservare delle manovre militari e partecipare all’inaugurazione di un museo a Sarajevo. Il 28 giugno era il quattordicesimo anniversario del giuramento morganatico con cui Francesco Ferdinando ottenne dall’imperatore Francesco Giuseppe il permesso di sposare la sua amata, Sofia Chotek (slava di nascita e di rango molto inferiore all’arciduca), in cambio del giuramento che i figli nati da questa unione non sarebbero mai saliti al trono. Sofia Chotek era lieta di accompagnare il marito in Bosnia e di celebrare l’anniversario lontano dalla corte di Vienna, dove veniva trattata con sufficienza. Francesco Ferdinando era considerato un sostenitore del trialismo, in base al quale l’Austria-Ungheria sarebbe stata riorganizzata riunendo le terre slave dell’Impero Austro-Ungarico sotto una terza corona. Un regno slavo avrebbe potuto fungere da baluardo contro l’irredentismo serbo e Francesco Ferdinando venne quindi percepito come una minaccia da questi stessi irredentisti. Princip dichiarò alla corte che impedire le progettate riforme di Francesco Ferdinando fu una delle sue motivazioni.
Arrivando al municipio per un ricevimento programmato, l’arciduca, mostrò comprensibili segni di stress, interrompendo un discorso di benvenuto preparato dal sindaco Curcic per protestare: “Veniamo qui e la gente ci tira addosso delle bombe”. L’arciduca si calmò e il resto del ricevimento fu teso ma senza incidenti. Funzionari e membri del seguito dell’arciduca discussero su come guardarsi da un altro tentativo di uccisione senza giungere a una conclusione coerente. Un suggerimento perché le truppe di stanza fuori dalla città venissero schierate lungo le strade, sembra venne respinto perché i soldati non si erano portati le loro uniformi da parata alle manovre. La sicurezza venne quindi lasciata alla piccola forza di polizia di Sarajevo. L’unica ovvia misura presa fu che uno degli aiutanti militari di Francesco Ferdinando prendesse una posizione protettiva sulla predella sinistra della sua autovettura. Ciò è confermato dalle fotografie della scena fuori dal municipio. I cospiratori restanti erano stati ostruiti dalla folla densa, e sembrò che il piano per l’assassinio fosse fallito. Comunque, dopo il ricevimento al municipio, Francesco Ferdinando decise di recarsi all’ospedale per visitare i feriti dalla bomba di Čabrinović. Nel frattempo, Gavrilo Princip era andato in un vicino negozio di alimentari, o perché aveva rinunciato o perché riteneva che l’attacco con la bomba avesse avuto successo. Uscendo vide l’auto aperta di Francesco Ferdinando tornare indietro dopo aver sbagliato a svoltare, nei pressi del Ponte Latino. L’autista, Franz Urban, non era stato avvisato del cambio di programma e aveva proseguito lungo il percorso che avrebbe portato l’arciduca e il suo seguito direttamente fuori dalla città.
Avanzando verso il lato destro della vettura, Princip esplose due colpi della sua pistola semiautomatica, una Browning FN Model 1910 calibro 7,65×17 mm di fabbricazione belga. Il primo proiettile trapassò la fiancata del veicolo e colpì Sofia all’addome, mentre il secondo colpì Francesco Ferdinando al collo, dove non era protetto dal giubbetto antiproiettile che indossava. Princip sostenne in seguito che la sua intenzione era di uccidere il governatore generale Potiorek, e non Sofia. Entrambe le vittime rimasero sedute dritte sull’auto, ma morirono mentre venivano portate alla residenza del governatore per i soccorsi. Le ultime parole di Francesco Ferdinando dopo essere stato colpito vennero riportate da von Harrach come le seguenti “Sofia cara, non morire! Resta in vita per i nostri figli!” (“Sopherl! Sopherl! Sterbe nicht! Bleibe am Leben für unsere Kinder!”). Princip cercò di togliersi la vita, prima ingerendo cianuro, e quindi con la sua pistola, ma vomitò il veleno apparentemente inefficace, e la pistola gli venne strappata di mano dai passanti prima che avesse la possibilità di esplodere un altro colpo. Alle 10:15 il corteo passò davanti al primo membro del gruppo, Mehmed Mehmedbašić. Costui si era piazzato a una finestra di un piano alto, ma in seguito sostenne che non riuscì ad avere il bersaglio libero e decise di non sparare per non mandare all’aria la missione allertando le autorità. Il secondo membro, Nedeljko Čabrinović, lanciò una bomba (o un candelotto di dinamite, secondo alcuni resoconti) contro l’auto di Francesco Ferdinando, ma la mancò. L’esplosione distrusse l’auto che stava immediatamente dietro, ferendo gravemente i suoi occupanti, un poliziotto e diverse persone che stavano nella folla. Čabrinović inghiottì la sua pillola di cianuro e si gettò nelle basse acque del fiume Miljacka. Il corteo accelerò in direzione del municipio, e sulla scena scoppiò il caos. La polizia trascinò Čabrinović fuori dal fiume, ed egli venne picchiato duramente dalla folla prima di venire preso in custodia. La sua pillola di cianuro era vecchia o con un dosaggio troppo debole e non funzionò. Il fiume era profondo solo 10 centimetri e non riuscì ad affogarvisi.
Il 28 giugno, giorno dell’uccisione, corrisponde al 15 giugno del calendario giuliano, festa di San Vito. In Serbia, viene chiamato Vidovdan e vi si commemora la battaglia della Piana dei merli del 1389 contro gli ottomani, durante la quale il sultano Murad venne assassinato nella sua tenda da un serbo; è un’occasione per le cerimonie patriottiche serbe. L’odio storico, nascosto nelle maglie più profonde della coscienza collettiva, covava sentimenti di vendetta. Tra i tanti che ordivano complotti, ebbero particolare fortuna i cosiddetti “sette giovani cospiratori”, i quali erano inesperti con le armi, e fu solo grazie a una straordinaria sequenza di eventi che ebbero successo. Delle rivolte anti-serbe scoppiarono a Sarajevo nelle ore successive all’assassinio, fino a quando non venne ristabilito militarmente l’ordine.
La reazione al terribile attentato, fu immediata. Pur essendo avvenuto il delitto in territorio sotto l’amministrazione austriaca, il governo di Vienna accusò la Serbia di complicità, richiedendo, tramite un ultimatum del 23 luglio, al governo di Belgrado di stroncare ogni movimento irredentista e di consentire a funzionari della polizia austriaca di svolgere indagini sulle responsabilità dell’attentato in territorio serbo. La risposta serba fu interlocutoria: si dichiarò pronta a discutere la questione rimettendola all’arbitrato delle potenze europee, ma respinse la richiesta di indagini condotte in territorio serbo da parte di funzionari austriaci. Vienna giudicò negativa la risposta e il 28 luglio dichiarò guerra alla Serbia. C’era forse la convinzione da parte austriaca che la questione potesse essere affrontata come in passato attraverso una piccola guerra localizzata nei Balcani. Invece la scintilla accesa a Sarajevo avrebbe in breve tempo incendiato l’intero continente europeo.
La dichiarazione di guerra dell’Austria mise in moto il meccanismo delle alleanze. La Russia, protettrice della Serbia, il 30 luglio proclamò la mobilitazione generale del proprio esercito; il 31 luglio la Germania – alleata dell’Austria – dichiarò guerra alla Russia e il 3 agosto alla Francia. Il 4 agosto l’esercito tedesco penetrò nel Belgio neutrale per puntare sul territorio francese. Il 5 agosto anche l’Inghilterra entrò nel conflitto, dichiarando guerra alla Germania. Il 6 agosto, spinta dalla Germania, l’Austria dichiarò guerra alla Russia; il 10 agosto Francia e Inghilterra dichiararono guerra all’Austria-Ungheria. Nel giro di pochi giorni tutta l’Europa venne travolta dal conflitto. Lo scoppio della guerra segnava la fine di un’epoca, di un periodo che, dal 1870 al 1914, aveva visto l’affermazione di una borghesia attiva, che aveva realizzato uno straordinario progresso tecnico e scientifico, aveva favorito lo sviluppo industriale e capitalistico del vecchio continente, nel quale cominciavano ad avere un ruolo e un peso anche movimenti sociali e politici che si ponevano a sostegno delle rivendicazioni del mondo del lavoro. Nel 1914 finiva il periodo storico che venne definito “belle epoque”, per descrivere una società frivola e spensierata, carica di speranze e di ottimismo, simbolo dell’egemonia borghese nell’Europa di quegli anni. La guerra era destinata a segnare una frattura. L’Europa che ritroveremo nel 1918 non sarà più l’Europa del 1914.
A Sarajevo, il Pontefice, riprenderà le prime parole pronunciate da Wojtyla, appena arrivato in Bosnia Erzegovina nel 1997: “Mai più la guerra, mai più l’odio e l’intolleranza! Alla logica disumana della violenza è necessario sostituire la logica costruttiva della pace. L’istinto della vendetta deve cedere il passo alla forza liberatrice del perdono, che ponga fine ai nazionalismi esasperati e alle conseguenti contese etniche”. Bergoglio riprenderà anche l’appello di pace pronunciato al Parlamento europeo di Strasburgo. In quell’occasione il Papa aveva invitato l’Unione Europea ad allargare i propri confini: “La coscienza della propria identità è necessaria anche per dialogare in modo propositivo con gli Stati che hanno chiesto di entrare a far parte dell’Unione in futuro. Penso soprattutto a quelli dell’area balcanica per i quali l’ingresso nell’Unione Europea potrà rispondere all’ideale della pace in una regione che ha grandemente sofferto per i conflitti del passato”. La Bosnia Erzegovina non ha ancora presentato la sua richiesta di adesione, ma è già ufficialmente riconosciuta dalla Commissione europea come Stato “potenzialmente candidato“.