di Bruno Scapini
La guerra contro l’ISIS è divenuta una vera sciarada, nonché sintomo del profondo disorientamento che caratterizza l’epoca in cui stiamo vivendo e, come tale, emblema di un possibile ripensamento sulla attuale realtà politica mondiale. Lo scollamento tra le dichiarazioni dei leader dei Paesi della coalizione e la situazione che viene a determinarsi sul terreno, con gli interventi militari di più fazioni, e su più larga scala, mette, infatti, chiaramente in luce un pericoloso scarto tra verità e menzogna, tra intenzionalità inespresse e obiettivi dichiarati. E la decisione sul futuro da assegnare al sedicente Stato Islamico non potrà restare indifferente ad una nuova reimpostazione dei rapporti internazionali, sopratutto alla luce degli obiettivi dichiarati dal Presidente eletto americano, Donald Trump.
C’è infatti da domandarsi quale potrebbe essere per l’ISIS l’esito di questa ultima offensiva lanciata dalle forze della coalizione. Ovvero, se veramente ci si spingerà ad un affondo totale, fino all’ annientamento del Califfato nero e, dunque, alla sua definitiva scomparsa, o se esso potrà in qualche modo sopravvivere sotto altre spoglie. La situazione appare talmente ingarbugliata, sia sul terreno operativo che sul piano diplomatico, da aprire la porta ad una serie di dubbi e di perplessità inducendoci a svolgere qualche riflessione.
In una guerra di “tutti contro tutti” sembra innanzitutto arduo individuare i veri ruoli dei vari soggetti coinvolti le cui motivazioni cambiano dall’uno all’altro, mai coincidendo in una finalità unica e condivisa. C’è chi combatte l’ISIS, chi finge di lottare contro lo Stato Islamico, ma in realtà combatte i gruppi nazionalisti curdi, chi intende liberare i territori iracheni dai miliziani jiahdisti, chi guerreggia contro la Siria di Assad e chi contro i ribelli siriani. Ma la lista non si esaurisce qui. Per schematizzare al massimo, comunque, vediamo da un lato l’azione di respingimento dell’ ISIS dai territori dell’Iraq e della Siria condotta dalle forze della coalizione, e, dall’ altro, la guerra dell’ Occidente contro il Governo siriano di Assad. Questi, appoggiato da Mosca, combatte a sua volta l’ISIS ma anche i gruppi ribelli che sono invece sostenuti dagli USA e dalla stessa coalizione occidentale. La Turchia, poi, allineata con Washington nel reprimere i jihadisti, in realtà sembra più interessata ad intervenire per combattere le milizie curde, di qualsiasi colore esse siano, per timore che un loro eventuale rafforzamento possa causare uno “spill over” di instabilità all’ interno del Paese o alimentare le speranze per la nascita di uno stato curdo.
Su questo generale sfondo agiscono così i principali “player” internazionali. Ma si agitano anche, e con contestuali conflittualità, soggetti comprimari, quali: le fazioni islamiche di ispirazione sunnita e sciita in continuo antagonismo tra loro e le altre comunità di varia estrazione nazionale o religiosa impegnate a salvaguardare la loro identità che rischierebbe altrimenti di naufragare. Ma alcuni punti fermi vanno evidenziati in questa caleidoscopica visione.
L’ America di Obama aveva fin dal suo esordio appoggiato e continuato la linea interventista avviata dall’Amministrazione Bush, tesa a cogliere le varie “primavere” arabe come una opportunità in vista di decapitare le dittature allora imperanti – dall’Iraq di Saddam Hussein alla Libia di Gheddafi – per riportare tutti i Paesi dell’area mediterranea su un allineamento pro- Washington ed esportarvi un modello di governo democratico al quale quei popoli non sono ancora pronti culturalmente e storicamente a conformarsi.
Ora è il turno della Siria di Assad, altro dittatore, sul quale la intolleranza di Washington si appunta anche in virtu’ dell’appoggio offertogli da Mosca determinata a non perdere più influenza sui territori di tradizionale interesse dell’ex Unione Sovietica, come anche su Paesi amici o alleati.
La guerra contro l’ ISIS si rivela così lunga e sanguinosa. E se è vero che la miglior maniera di prevedere il futuro è inventarlo, bene. Obama ci è riuscito perfettamente ! Nobel per la pace, il Presidente americano, dopo aver lasciato che il Califfato nero si rafforzasse sul territorio di vari Paesi, causandone una programmata destabilizzazione politica, ha ora dichiarato di voler combattere l’ ISIS e quanti si qualifichino “ terroristi “ senza troppe sottigliezze semantiche.
La guerra così allo Stato Islamico, che con il potenziale militare e tecnologico americano avrebbe potuto risolversi in tempi ragionevolmente brevi, viene invece “spalmata” su almeno tre anni per decisione di Obama, e con effetti collaterali imprevedibili per le popolazioni civili coinvolte. Ma cosa importa a Washington? L’esodo dei rifugiati colpisce l’Europa, non l’ America, e causa divisionismi al suo interno che, suscettibili di pregiudicarne un qualunque processo di rafforzamento dell’architettura istituzionale, meglio si prestano in fondo a favorire il ruolo americano.
Chiaramente, dunque,l’interesse di fondo dell’Amministrazione Obama non è stato l’obiettivo della pacificazione in Medio Oriente ( il premio Nobel per la pace è stato un mero auspicio incentivante !). Sorretto e sospinto dalle lobby militari e da quelle finanziarie legate alle fonti energetiche, il Presidente americano ha sostenuto un corso politico nell’area mediterranea, e in quella dell’Est europeo, mirato principalmente a demonizzare, antagonizzandola, la Russia di Putin e creando instabilità ovunque queste potessero rivelarsi funzionali ad un indebolimento della presenza di Mosca. L’ ISIS in questo quadro ha servito perfettamente lo scopo. Fattore devastante per la Siria e per altri Paesi dell’area, il Califfato si è nutrito della “tolleranza” americana per crescere e rafforzarsi senza plausibile giustificazione, fino a quando la determinazione di Putin a contrastare il tentativo di far cadere Assad ha indotto un calcolato “ripensamento” della Casa Bianca nei confronti dello Stato Islamico. Un ripensamento orientato ora a contenere il rischio di una eccessiva espansione del Califfato nero, il cui maggiore controllo sui territori di molti Paesi potrebbe, oltre un certo limite, essere percepito pericoloso e anti-funzionale per gli equilibri voluti da Washington. Tre anni – dice Obama – potrà durare questa guerra. Tre lunghi anni. Ma con quale esito per l’ ISIS ? Probabilmente, l’elezione di Hillary Clinton alla Casa Bianca avrebbe confermato la attuale linea di politica estera americana con la conseguenza che l’impegno USA contro il Califfato si sarebbe solo limitato a smorzarne la foga aggressiva per relegarlo ad un più modesto gruppo rivoluzionario armato, ma sempre pronto ad intervenire là ove dovesse emergere necessità.
La vittoria di Donald Trump ha invece spiazzato tutte le previsioni. La sua amministrazione certamente introdurrà – seppure attenuando i toni accesi tenuti nella campagna elettorale – profondi mutamenti nella linea di politica estera americana. E se non altro per coerenza funzionale con i principali obiettivi del suo programma politico interno teso – come noto – a ridisegnare l’azione governativa e l’ intervento dello Stato nell’ economia: contenere lo strapotere delle lobby finanziarie e del “military-industrial complex”, rafforzare i cicli produttivi dell’economia nazionale in chiave sensibilmente autarchica, diminuire il debito pubblico e il deficit commerciale attraverso, sopratutto, una limitazione delle ingenti spese legate alla presenza militare americana nel mondo e rinegoziando gli accordi commerciali.
L’azione estera di Trump dovrà, quindi, necessariamente adeguarsi ai nuovi “target” del programma nazionale; e a tal fine non potrà non scontare una rivisitazione delle direttrici di politica estera finora seguite da Washington ponendo quali fondamentali obiettivi strategici il raggiungimento di un soddisfacente grado di protezionismo economico e commerciale ( indispensabile per un rilancio a tutto campo della produzione nazionale in vista di assicurare la dichiarata crescita del PIL del 3.5 % ), e una riduzione della presenza militare americana all’estero causa di gravi disequilibri nella spesa pubblica. Ed è sopratutto su questo punto che si giocherà la credibilità del Trump Presidente, sul modo, cioè, in cui il nuovo inquilino della Casa Bianca potrà conseguire un minor grado di impegno militare all’estero senza che ne risenta la sicurezza del Paese, né quella dei suoi alleati. Ma una conciliazione di tali obiettivi non potrà evidentemente raggiungersi se non attraverso un “re – setting” dei rapporti internazionali e, in particolare, con quei Paesi che hanno rappresentato per le amministrazioni precedenti – speciosamente o no – fonti di minaccia per la sicurezza o sfide alla stabilità democratica. Trump, in questa prospettiva, non avrà altra scelta se non quella di ristabilire con Mosca – quale pre-condizione imprescindibile – un rapporto di distensione per riportare stabilità nelle aree del pianeta, oggi sconvolte da guerre e rivoluzioni, attraverso un mutuo riconoscimento di interessi prevalenti.
In questa direzione, priorità della nuova amministrazione americana sarà presumibilmente un progressivo disingaggio dalla Siria e dall’ Iraq – compatibilmente con l’esigenza di neutralizzare le forze dell’ ISIS o con il loro annientamento o, più realisticamente, anestetizzandone la capacità offensiva e di ricompattamento – e un graduale e misurato disimpegno dalla protezione militare assicurata all’ Europa da far compensare da parte degli stessi europei con una loro maggiore mobilitazione in termini di difesa.
Ma l’azione di Trump volta a contenere l’ingente importo assegnato alle spese militari e alla cooperazione internazionale – tra cui brillano gli stanziamenti per il sostegno a Israele e il mantenimento delle oltre 125 basi militari americane nel mondo– non finirà qui.
Il nuovo Presidente si è infatti impegnato a sgravare il peso fiscale a carico dei cittadini. E in tale prospettiva non potrà mancare di ridurre anche quell’impegno agli aiuti concessi all’estero dalle precedenti amministrazioni al fine di ottenere un asservimento alla causa di Washington da parte dei Paesi ritenuti “a rischio“ o di valenza strategica. In quest’ottica, Trump dichiara di prendere “distanza” dalle lobby ebraiche. Circostanza, questa, che inevitabilmente implicherà una “risistemazione” delle relazioni con Tel Aviv e non solo. Ma anche con quei Paesi ( Palestina inclusa ) che direttamente o no si giovano del sostegno americano a Israele. Un “re-setting” a tutto campo, dunque, ci si attende dal nuovo Presidente che dichiara persino di riprendere i contatti con la Corea del Nord. Tutto farebbe prevedere così una nuova fase per le relazione internazionali. Dopo l’immobilismo legato per mezzo secolo quasi alla immota visione del mondo suggerita dalla Guerra Fredda, e dopo la successiva fase della “permanent war” nata dalla dissoluzione dell’Unione Sovietica, ora si preannuncerebbe un tempo nuovo. Un’epoca in cui i vecchi modelli politici, basati sul “vedere il nemico nel mio vicino”, potrebbero forse venire abbandonati in favore di una rinnovata visione del mondo nella quale potranno trovare riconoscimento e aggiustamento non solo gli interessi dei “potenti” del Pianeta, ma anche le aspirazioni dei più deboli. E Trump proprio in proposito ha dichiarato che la sua America “sarà giusta con popoli e nazioni “ ; il che sottenderebbe – evitando di citare gli Stati – una sottile sua allusione al diritto di quelle genti che non hanno finora trovato collocazione all’interno di una statualità precostituita e riconosciuta.
Programma ambizioso ? Forse. Ma non poniamo limiti al “sogno americano”. Anch’esso muta nel corso del tempo, cambia di contenuti e si adatta alle nuove visioni che evolvono continuamente. Ma per realizzarlo, Trump dovrà scegliere un punto di partenza, un atto iniziale che sia il primordio della nuova azione condizionante tutto il processo strategico. E questo non potrà che essere la ripresa di un rinnovato dialogo con Mosca. Un dialogo inteso non a radicalizzare le opposte posizioni, bensì a ricernarne l’equo reciproco adattamento. Solo con un accordo con la Russia di Putin il nuovo programma preannunciato da Trump potrà suonare credibile, e le premesse finora sembrerebbero avvalorare le speranze. Non anticipiamo, dunque, giudizi critici sul nuovo Presidente. Attendiamo le sue prime mosse da inquilino della Casa Bianca e, per dirla come Obama, “ diamogli una chance !”