Segui il gas russo e le mire statunitensi, arriverai in Macedonia


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(Alessia Lai) – Per ora ha trovato pochissimo spazio sui media, ma il rischio che la piccola e praticamente sconosciuta ai più Macedonia (il cui nome corretto è Fyrom) salga presto alla ribalta delle cronache in seguito a presunte stragi, pulizie etniche, o dura repressione governativa è reale. In pochi hanno riportato i recenti incidenti nei quali si sono registrati 22 morti, 8 poliziotti e 14 terroristi, in seguito a una lunga operazione delle forze dell’ordine macedoni a Kumanovo, area di etnia albanese (il 25 percento della popolazione della Macedonia) nel nord del Paese. Chi nel mainstream ne ha parlato lo ha fatto tracciando un profilo dell’accaduto tipicamente “balcanico”, quello degli scontri interetnici, mettendo peraltro il termine terroristi fra virgolette – come ha fatto il Sole 24Ore ad esempio – dando quindi ad intendere che la versione ufficiale del governo macedone potrebbe essere viziata da una discriminazione nei confronti della comunità albanese. Ben più spazio è stato invece dedicato alla manifestazione antigovernativa di domenica, una prova “colorata”, una “fotocopia” delle proteste di piazza Maidan che hanno cambiato il volto dell’Ucraina con l’opposizione che annuncia un presidio permanente davanti ai palazzi del potere finché non arriveranno le dimissioni dell’attuale governo. Cose già viste. E una rappresentazione mediatica che inserisce il governo di Skopje nella “lista dei cattivi”, primo passo per condanne internazionali utili a mettere le mani su un Paese scomodo.

La realtà va cercata però più in profondità e facendo mente locale su quanto accaduto nella stessa Macedonia nel 2001, contagiata dalle spinte indipendentiste albanesi che avevano poco prima trasformato il Kosovo in un campo di battaglia, con gruppi di miliziani albanesi dell’Uck, gli stessi che agirono nella regione serba, che entravano in Macedonia alimentando il conflitto civile al quale si mise fine con l’Accordo di Ocrida. Dalla pace siglata al termine del conflitto interno del 2001, la tensione fra le due principali etnie della Fyrom, macedone-ortodossa e albanese-islamica, è rimasta sullo sfondo della vita politica. La situazione ideale per chi, dall’esterno, voglia cercare  di destabilizzare all’occorrenza il Paese. E l‘occorrenza pare sia arrivata: dall’inizio del 2015 il clima è teso, con un tentativo di golpe denunciato dal governo conservatore in carica e, di contro, con le accuse di autoritarismo da parte dell’opposizione di centrosinistra. Al centro delle tensioni vi è un caso di intercettazioni illegali ordinate dal premier in carica Nikola Gruevski, utilizzate poi dal leader dell’opposizione come arma di ricatto contro il governo del primo ministro.

Come ha ben spiegato Andrew Korybko in un articolo comparso su Sputniknews, negli ultimi due anni il premier macedone aveva usato i servigi dell’ex capo dell’intelligence Zoran Verushevsky per intercettare illegalmente oltre 20.000 persone nel piccolo paese di 2 milioni di abitanti, tra cui politici, giornalisti e normali cittadini. Zoran Zaev, il leader dell’opposizione, ha ottenuto (presumibilmente da servizi segreti stranieri) le copie dei nastri illegali al fine di ricattare il governo, minacciando di rendere pubbliche le intercettazioni telefoniche e accusando il governo di averle commissionate insinuando che la conseguenza sarebbe potuta essere una “rivoluzione colorata”. Tuttavia il premier macedone non ha ceduto al ricatto, e alla fine di gennaio i servizi di sicurezza hanno arrestato Verushevky e i suoi complici con l’accusa di aver pianificato un colpo di Stato, mentre a Zaev è stato ritirato il passaporto per impedirgli di fuggire all’estero durante l’inchiesta. Nel pc di Verushevsky, sottratto dalla polizia al tentativo del figlio di distruggerlo, sarebbero stare rinvenute conversazioni via Skype dove Verushevky e un’altra persona parlavano della possibilità che lo scandalo delle intercettazioni innescasse una nuova guerra civile.

Ma perché questo clima instabile in un piccolo Paese dei Balcani dovrebbe essere indagato con più attenzione? Lo delineano sia il già citato Andrew Korybko che Tierry Meyssan sul sito del Reseau Voltaire: per capire bisogna seguire le vie del gas e l’interesse statunitense affinché non sia la Russia il primo fornitore dell’Europa. Nel dicembre 2014 è ufficialmente fallito il progetto del gasdotto South Stream che avrebbe dovuto portare il gas russo in Europa attraverso due canali che dalla Bulgaria, punto d’arrivo delle condotte che attraversavano il Mar Nero, si sarebbero diramati uno verso nord attraverso Serbia, Ungheria e Austria, e uno verso sud passando per la Grecia e giungendo in Italia attraversando in Canale di Otranto. Ma proprio la Bulgaria si è ritirata dal progetto dietro forti pressioni dell’Ue e degli Stati Uniti. Putin ha così ripensato le rotte delle pipelines che correranno sotto il Mar Nero con un percorso che passando dalla Turchia – attraverso il Turkish Stream, il gasdotto russo che attraversa la regione della Tracia orientale turca – giunga in Grecia e passando per la Macedonia, la Serbia e l’Ungheria giunga infine in Austria. Si tratta del Balkan Stream, che aggira la Bulgaria facendo entrare nell’affare del gas la piccola Macedonia e una Grecia strozzata dalla Troika alla quale solo pochi giorni fa Mosca ha proposto l’ingresso nella banca dei Brics.

La nuova strategia di Mosca è passata rapidamente dalla carta alla realtà con un’azione concreta presa nello scorso marzo, quando la società russa  Stroytransgaz ha annunciato che avrebbe a breve iniziato la costruzione della sezione di gasdotto Klechovtse-Negotino in Macedonia, un’opera del valore di circa 75 milioni di euro che dovrebbe essere terminata nel giugno 2016. Che la Bulgaria avrebbe causato il fallimento del South Stream era apparso chiaro già un anno fa, con ogni probabilità questo ha portato la Russia a elaborare un piano B e i suoi nemici “democratici” (gli stessi che hanno fatto fallire il South Stream) a cercare di prevenirlo. Stavolta il Paese da “convincere” è la Fyrom. Se nei primi mesi del 2015 è stato neutralizzato il tentativo del leader dell’opposizione macedone di sfruttare lo scandalo sulle intercettazioni illegali, ora a preoccupare è la destabilizzazione più “semplice”, quella che fa leva sulle mai sopite tensioni etniche tra la maggioranza slavo-ortodossa e i macedoni di etnia albanese, il tutto accompagnato a nuove chiamate alla mobilitazione in stile colorato da parte dell’opposizione contro il governo, reo di aver raffreddato i rapporti con i partner Ue dopo aver rifiutato di aderire alle sanzioni contro la Russia. Il piano – riuscito – di espropriare la Serbia della regione che ne rappresentava la culla culturale per farla diventare uno staterello criminale, il Kosovo gestito oggi da ex terroristi albanesi che ne basano l’economia su traffici illegali di ogni genere, rischia di essere un modello per proseguire la destabilizzazione dei Balcani in funzione antirussa.

L’impronta occidentale sulla questione serbo-kosovara è cristallina, visti i cospicui finanziamenti nordamericani che hanno permesso prima la guerra e poi la ricostruzione che ha strappato il Kosmet a Belgrado facendolo diventare un feudo albanese e parte del progetto della Grande Albania, rigurgito strettamente funzionale al controllo nordamericano dei Balcani. La Macedonia confina con l’Albania a est e col Kosovo e la Serbia a nord e da anni affronta periodici “risvegli” della sua comunità albanese e di gruppi radicali che vorrebbero spaccare il Paese per annetterne gran parte al sogno di una entità albanese al centro dei Balcani. Le rivendicazioni etnico-religiose diventano, ancora una volta, la stampella di piani geopolitici. E rispettando il cliché dei nostri tempi, l’islam, o meglio, l’islamismo, ha un posto di primo piano in questa nuova compromissione di equilibri.

Le infiltrazioni terroristiche di salafiti nell’area balcanica risalgono già agli anni ’90, quando questi agevolarono la frammentazione dell’ex Jugoslavia con elementi che andavano a combattere nelle formazioni espressione dei gruppi etnici di religione musulmana. Dal Maghreb, dall’Afghanistan e dalla Penisola arabica partivano uomini, volontari del jihad che combattevano in Bosnia. Come accade oggi, con i “pendolari” del jihad che si spostano in Siria al servizio delle formazioni radicali che vorrebbero abbattere Assad. Una migrazione nella quale si intravede, oggi come venti anni fa, la mano dei Paesi del Golfo. Da allora la “conquista” dei Balcani non si è mai interrotta, portando nell’area una sempre più rilevante quota di islamisti radicali in parallelo con generose iniezioni di petrodollari da Arabia Saudita e ora dal Qatar, nuovo centro nevralgico della politica-propaganda delle monarchie del Golfo.

La Macedonia, con un quarto della sua popolazione di religione musulmana, non è esente dalla fascinazione dei petrodollari: a fine marzo 2012 una delegazione della Fyrom, guidata dall’attuale premier Nikola Gruevski, aveva visitato in Qatar le sedi di numerose società statali e private, nell’ambito di una visita ufficiale a Doha mirata alla promozione delle opportunità d’investimento offerte da Skopje. Ma pochi giorni prima era stato il turno del vicepremier e ministro degli Esteri albanese Edmond Haxhinasto, arrivato anch’egli in visita ufficiale nel Qatar dopo che già il presidente albanese e il sindaco di Tirana avevano fatto tappa nel Paese arabo. Il vicepremier aveva presentato progetti per investimenti da realizzare in diversi settori dell’economia albanese: dall’energia, al turismo, dall’agricoltura e alle infrastrutture stradali, siglando un accordo per l’esenzione dei visti per i funzionari con passaporto diplomatico e di servizio, a dimostrazione della volontà di instaurare rapporti sempre più solidi col generoso Qatar. Flussi di denaro e di uomini sono così giunti in questi anni nei Balcani ad alimentare il magma dell’integralismo islamico da usare all’occorrenza nelle crisi, e non solo in quelle locali.

La prova di questa “internazionalizzazione” risale alla primavera del 2012, quando l’Associated Press rese noto che, al ritorno da una visita negli Stati Uniti, una delegazione di membri dell’opposizione siriana aveva fatto tappa a Pristina per tenere colloqui su come impiegare in Siria le conoscenze acquisite dall’Esercito di Liberazione del Kosovo (Uck) durante la guerra contro Belgrado. La destinazione di provenienza della delegazione siriana non era un caso: Washinton ha foraggiato i terroristi albanesi per disgregare la Serbia, esattamente come fa da quattro anni al fine di distruggere la Siria. Insomma, il Kosovo albanese si sarebbe occupato di addestrare le milizie “ribelli” siriane nelle basi che furono dell’Uck. Un passaggio di testimone tra terroristi. Il sodalizio “ribelle” era stato immediatamente denunciato da Mosca: l’ambasciatore russo all’Onu, Vitaly Churkin aveva citato le informazioni dell’AP denunciando la possibilità che il Kosovo diventasse «un centro internazionale di addestramento per vari insorti e gruppi armati, cosa che sarebbe un grave fattore di destabilizzazione, che andrebbe al di là dei Balcani».

Da Pristina arrivarono le smentite di rito, ma la natura illegale e criminale dello staterello kosovaro-albanese mal si concilia con le professioni di innocenza di un’autorità espressione delle milizie terroristiche dell’Uck. E siccome a pensar male spesso ci si azzecca, due anni dopo, nell’estate del 2014, la polizia kosovara riferì di una cinquantina di arresti di islamisti radicali, tutti sospettati di avere combattuto con l’Isis e Jabhat an-Nusra in Iraq e Siria. Nove degli arrestati erano risultati imam delle moschee della città di Pristina, accusati di essere a capo di una rete che avrebbe fatto arrivare in Siria e Iraq almeno 200 volontari.

Durante gli arresti sono state rinvenute grandi quantità di armi, munizioni ed esplosivi in 60 depositi, incluse moschee, che sarebbero servite da centri di reclutamento. In entrambi i casi il governo kosovaro aveva plaudito alle operazioni di polizia, ma visti i precedenti del 2012 e i trascorsi militanti di gran parte della classe politica kosovaro-albanese il minimo è chiedersi se si trattasse di sincera soddisfazione o se Pristina avesse qualcosa da nascondere. Di certo i separatisti che periodicamente si risvegliano in Macedonia hanno stretti contatti con gruppi radicali che da almeno tre anni si stanno ricostituendo in Kosovo e il fattore islamista sta diventando di peso in tutta l’area. Se è vero che seguire le potenziali rotte dell’energia fa emergere un quadro chiaro delle crisi politico-sociali, e non solo nell’area balcanica, in realtà non basta a spiegarle tutte e non interamente.

C’è dell’altro: come sostiene Giulietto Chiesa – che su Sputniknews ha puntato il faro sulle manovre dell’ambasciata Usa e di Soros nel destabilizzare Skopje  – si tratta del dominio totale della potenza nordamericana, un’ombra che emerge sempre alle spalle delle crisi e delle tensioni internazionali. La questione energetica è solo una parte del problema, in realtà è il controllo assoluto sul resto del globo che muove la politica estera di Washington e dal 2001 il filo conduttore dell’agire statunitense è un islamismo radicale sempre originariamente alimentato, se non creato, dalle agenzie nordamericane.

Oggi la vulgata mediatica descrive la Russia come l’antico nemico tornato alla ribalta, alla propaganda Usa serve una narrazione che faccia ripensare alla guerra fredda, a una contrapposizione tra due blocchi. In realtà non siamo più spettatori della rivalità tra due superpotenze, ma tra il gigante a stelle e strisce, con tutto il suo apparato oramai più propagandistico che bellico, e una rete di Paesi che intrecciano relazioni, scambi e che si pongono nello scacchiere internazionale con la forza della collaborazione. Tra questi spicca Mosca, ma al fianco di una Cina in crescita esponenziale e circondata da nazioni emergenti sparse tra America Latina, Africa e Continente asiatico con le quali tesse una rete di relazioni economiche e politiche. È questo a preoccupare di più Washington: l’evoluzione di un mondo multipolare. La reazione statunitense è una guerra-cluster, spezzettata come un ordigno a frammentazione. Un conflitto diffuso che non ha lo scopo di distruggere e assoggettare uno specifico Paese ma che punta a creare caos, destabilizzare, a spezzare i legami tra nazioni “nemiche” inoculando il tumore delle rivoluzioni colorate o dell’islamismo radicale. Ora tocca alla piccola Macedonia subire l’interessamento nordamericano, lo scopo è assestare un altro colpo – dopo la “conquista” dell’Ucraina – alla Russia e alle sue relazioni con l’Europa basate sull’approvvigionamento energetico. Mosca è una porta aperta verso un nuovo mondo multipolare al quale la vecchia Europa – comandata a bacchetta dai suoi figli degenerati d’oltreoceano – non deve guardare.

 

 

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