Trump-Zelensky: il vero senso della diatriba


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(Bruno Scapini) – Si fa tanto parlare in queste ore dello scontro verbale avvenuto venerdì scorso nello Studio Ovale della Casa Bianca tra il Presidente Donald Trump e Volodymyr Zelensky. Sebbene banalizzato per diversi aspetti dai media -secondo i quali Trump si sarebbe irritato per via dell’irriverente “dress code” del leader ucraino e del mancato senso di gratitudine verso un’America incline a sostenere la causa della pace – in realtà il diverbio nasconderebbe un significato ben più ampio che si pone al di là della semplice schermaglia verbale e degli aspri toni da essa assunti.

La domanda, infatti, che ci si dovrebbe porre per avviare un utile esercizio di riflessione sull’episodio, e comprenderlo nei suoi passaggi più ascosi e inespressi è: dove mai l’Europa, intesa come quell’insieme di Stati storicamente servili e accondiscendenti verso un’America che l’ha resa sua “first line of defence” avverso tutte le potenziali aggressioni provenienti dall’Est, abbia trovato oggi il coraggio di opporsi alla Casa Bianca! Un coraggio, peraltro, espresso con insolita audacia dagli europei nel rinnegare il ruolo di sostegno di Trump alla causa della libertà democratica dell’Ucraina e nell’appoggiare, per contro, e con proterva caparbietà, le pretese di Kiev nonostante l’evidente incapacità del suo regime di opporre una valida resistenza ai duri colpi inferti da Mosca sul terreno militare.

Non solo, ma ci sarebbe un altro aspetto della faccenda che indurrebbe a immaginare come il dialogo tra le parti (Trump e Zelensky), non sia quello che effettivamente si vorrebbe far credere con l’assegnare all’ex attore di avanspettacolo il ruolo di intrepido interprete dello storico momento che il mondo sta attraversando.  Che in realtà si nasconda qualcosa dietro questo ruolo, peraltro incapace di celare nell’inedita farsa clownesca dell’ex comico di Kiev il potere di chi da dietro le quinte lo istruisce e comanda, è ipotesi che acquisterebbe ormai una innegabile veridicità. E proverebbe tale conclusione proprio l’insolito coraggio manifestato dagli europei nello sfidare gli Stati Uniti se non vi fosse stato un potere più che forte a sostenerli. Un potere che facilmente potremmo ricondurre a quel “Deep State” americano che tanta parte ha avuto nel contrastare Trump nella sua candidatura alla Casa Bianca nella recente campagna elettorale, e che oggi lo ostacolerebbe in tutti i modi impedendogli di portare a compimento il riavvicinamento tra Washington e Mosca, quale premessa imprescindibile per rimettere in asse un corso politico mondiale a rischio di Apocalisse nucleare. Orbene, questo ostracismo del Deep State troverebbe ora facile terreno per esplicitarsi non più solo sul suolo americano, dove il controllo pervasivo ormai raggiunto da Trump lo terrebbe continuamente sotto tiro (grazie peraltro al sostegno “tecnico” di Elon Musk il cui ruolo prova di essere perfettamente complementare all’azione presidenziale), ma in Europa. In quell’Europa dove il “sistema” di potere è riuscito a piazzare a capo dei governi fedeli “young leaders”, avanguardie del circolo di Davos  (leggi pure Klaus Schwab e il suo portfolio di investimenti politici) concepite e costruite per opporre resistenza a qualunque mutamento politico americano e per sopravvivere a qualsiasi presidente che si fosse trovato inquilino alla Casa Bianca.

Conseguenziale a questo punto sarebbe ritenere il ruolo che si vorrebbe assegnare a Zelensky, quale perno cioè su cui incentrare ogni negoziato per una soluzione del conflitto, come un falso ideologico. E’ inammissibile, infatti, sul piano di una ragionevole considerazione del mediocre calibro politico dell’uomo, che la soluzione di una crisi, prospettata come forse la più grave in assoluto dalla fine dell’ultima Guerra mondiale, debba dipendere da un singolo individuo trovatosi per bizzarra sorte di una comica carriera a decidere termini, modalità e condizioni di una pace che ponga termine al più grave incubo che l’Umanità possa temere per se stessa.

Nessun uomo potrebbe avere tanto ardire nell’esigere da un Presidente americano di adeguarsi alle proprie pretese, e indurlo a gestire i delicatissimi rapporti con la Russia per compiacere i suoi propri interessi, se non fosse sostenuto da poteri forti in grado di offrirgli quell’iniezione di intrepidezza indispensabile ad affrontare il gotha intero dell’Amministrazione americana.

Ecco, dunque, come si chiariscono i termini della vicenda.

Zelensky, per mandato assegnatogli dai decisori del Deep State europeo – e per riflesso immediato anche da quello americano tuttora in sopravvivenza – si è presentato a Washington con un accordo già predefinito nei suoi termini (per la concessione di risorse minerarie chieste da Trump quale risarcimento per spese militari sopportate dagli USA in una guerra che “non si sarebbe dovuta mai fare”), ma oggetto di ritrattazione all’ultimo istante nello Studio Ovale al solo scopo di complicare il dialogo di Trump con Putin inducendolo a pretendere condizioni di pace che mai Mosca potrebbe convincersi a concedere.

E’ chiaro che il vero interlocutore della Casa Bianca non è – né potrebbe realisticamente esserlo – “l’uomo Zelensky”, bensì quel potere della cupola oligarchica del Deep State che agisce e si muove per suo tramite e che Trump si trova a dover combattere non solo sul suolo americano, ma anche – come sua propaggine estensiva – su quello europeo. Una cupola, quella del Vecchio Continente, peraltro particolarmente infida, che spingerebbe l’Ucraina, con spregiudicato bellicismo, ad esasperare i rapporti con Mosca in vista di assestarle la tanto auspicata sconfitta strategica. Non solo, ma anche, e prevalentemente potremmo affermare, allo scopo di minare alla base l’azione di Trump che, improntata ad un innegabile pragmatismo storico, vede nel riavvicinamento tra le due superpotenze la pietra angolare non solo per una soluzione alla crisi ucraina – peraltro sconsideratamente creata dalle Amministrazioni che lo hanno preceduto – ma anche, e soprattutto, per favorire una transizione sistemica globale verso un nuovo ordine mondiale fondato sulla cooperazione e sulla coesistenza pacifica; un fine, quest’ultimo, che non potrebbe chiaramente prescindere per la sua realizzazione  da una totalizzante intesa tra Washington e Mosca, l’unica tra le superpotenze in grado di garantirne validità e continuità nel tempo.

Per contro, l’Europa parla ancora di una possibile aggressione da parte della Russia e designa questo rischio addirittura come una eventualità realisticamente probabile. Anzi, ne preconizzerebbe per voce dei suoi leader l’inevitabilità già entro il prossimo decennio, al punto da prevedere una militarizzazione dell’Unione con grave indebitamento per i popoli europei che vedrebbero così compromesso il recupero di quel dignitoso livello di vita e di sicurezza sociale un tempo posseduto, ma divenuto per loro ormai un lontano ricordo del passato.

Giustamente allora avrebbe agito Trump a conclusione del sofferto incontro, allorché ha additato all’”uomo Zelensky” l’uscio dello Studio Ovale, ingiungendogli di andarsene e di tornare quando realmente avesse optato per la pace e non per la continuazione di una guerra capace solo di far precipitare il mondo nel baratro di un suo totale annientamento.


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