Turchia e Israele: l’ombra dell’autoritarismo nelle “democrazie modello” del Medio Oriente


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Nel giro di pochi giorni, due episodi drammatici hanno scosso i fondamenti democratici di Turchia e Israele, due paesi spesso presentati come “democrazie stabili” in un Medio Oriente turbolento. Ma gli eventi recenti sollevano interrogativi profondi: quanto è solida la democrazia quando chi sfida il potere viene incarcerato?

In Turchia, Ekrem İmamoğlu, sindaco di Istanbul e principale oppositore del presidente Recep Tayyip Erdoğan, è stato arrestato con l’accusa – contestata da molti osservatori internazionali – di “propaganda eversiva” e “abuso d’ufficio”. Una mossa che appare fortemente politica: İmamoğlu aveva da poco annunciato l’intenzione di candidarsi alle prossime elezioni presidenziali del 2028, mettendo fine al monopolio ventennale di Erdoğan.

Nel frattempo, in Israele, il governo guidato da Benjamin Netanyahu ha ordinato l’arresto della procuratrice generale Gali Baharav-Miara, che aveva avviato un’indagine su presunti fondi illeciti ricevuti dal premier da ambienti vicini al Qatar. Un fatto senza precedenti, che getta una luce inquietante sulla separazione dei poteri nello Stato ebraico. Il messaggio è chiaro: chi osa mettere in discussione l’integrità del potere politico, ne paga il prezzo.

Questi due eventi, che avvengono in parallelo, ci obbligano a riconsiderare le categorie con cui definiamo “democrazia” e “autoritarismo”. Se fino a pochi anni fa si parlava del regime di Bashar al-Assad in Siria o del defunto Gheddafi in Libia come esempi di governi repressivi, oggi le stesse dinamiche – repressione del dissenso, controllo sul potere giudiziario, uso strumentale della legge – si manifestano in paesi che fanno parte dell’architettura strategica dell’Occidente.

La Turchia è membro della NATO. Israele è alleato storico di Washington e punto di riferimento per l’Occidente nella regione. Eppure, gli strumenti democratici in entrambi i paesi sembrano essere sempre più svuotati di senso.

Non si tratta solo di una crisi locale. Questi segnali parlano anche all’Europa e agli Stati Uniti: sostenere regimi che reprimono il dissenso, in nome della stabilità o di interessi strategici, rischia di minare la credibilità dell’intero impianto democratico globale. E mentre i riflettori mediatici restano spesso puntati altrove, nei palazzi del potere si sta giocando una partita molto più grande: quella sul futuro stesso della democrazia in Medio Oriente.

In un momento storico in cui le parole “libertà”, “giustizia” e “rappresentanza” vengono sempre più svuotate di significato, i casi di Turchia e Israele non sono episodi isolati, ma segnali di un cambiamento sistemico. Non possiamo più ignorarli.

 

(Raimondo Schiavone)


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