Un siriano a Washington e una americana (Base) a Damasco: quando “sicurezza” fa rima con “occupazione”


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Di Naman Tarcha

Il presidente di “transizione” siriano sarà ricevuto oggi, da Trump alla Casa Bianca. Washington ha “convinto” il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite a revocare le sanzioni al presidente siriano Al Sharaa e rimuoverlo dalla lista nera con 14 sì e (l’astensione della Cina), e ha scoperto improvvisamente che la Damasco avrebbe bisogno di “protezione”.

È ufficiale: dopo anni passati a bombardare, sanzionare e strangolare economicamente la Siria, gli Stati Uniti hanno finalmente trovato nuovamente il modo di “aiutare” il paese mediorientale. Come? Piazzando truppe americane in una base aerea appena fuori Damasco per “garantire” un futuro patto di sicurezza tra Siria e Israele. Perché si sa, quando due vicini litigano da decenni, niente risolve le tensioni meglio di un terzo incomodo armato fino ai denti.

Secondo quanto riportato dall’agenzia Reuters, citando diverse fonti tra cui funzionari occidentali e regionali, (quelli siriani per ora negano categoricamente), Washington sta preparando il terreno per un dispiegamento militare nella capitale siriana. L’obiettivo dichiarato è nobile quanto prevedibile: “monitorare il rispetto dell’accordo tra Israele e Siria”. Perché evidentemente, dopo la caduta di Assad nel dicembre 2024, la nuova Siria guidata da Ahmed al Sharaa ha improvvisamente sviluppato un insopprimibile desiderio di ospitalità nei confronti dell’esercito americano.

La geografia della “protezione”

La base si troverebbe strategicamente posizionata all’ingresso delle zone meridionali della Siria, destinate a diventare – guarda caso – una zona smilitarizzata nell’ambito del patto di non aggressione tra Israele e Siria. Un accordo mediato dall’amministrazione Trump che, secondo le fonti, prevede che la Siria accetti gentilmente di smilitarizzare ampie porzioni del proprio territorio nazionale, mentre Israele mantiene comodamente il controllo strategico del Monte Hermon e si riserva un “corridoio aereo” per eventuali futuri bombardamenti.

Il tutto ricorda stranamente il modello di Camp David del 1979 tra Egitto e Israele: zone smilitarizzate, limitazioni alla sovranità aerea, restrizioni sulle forze armate. L’unica differenza? L’Egitto almeno recuperò il Sinai. La Siria, invece, dovrà accontentarsi di vedere le truppe israeliane ritirarsi dai territori occupati negli ultimi mesi, mentre le Alture del Golan – occupate dal 1967 – rimangono questione “da rimandare al futuro”. Dunque Mai!

Una presenza americana “umanitaria”

Fonti siriane assicurano che la base eventualmente sarà utilizzata per “sorveglianza, logistica, rifornimento di carburante e operazioni umanitarie”. Umanitarie, certo. Come le basi americane di al Tanf, quella “illegale” al confine siro-iracheno-giordano che gli Stati Uniti utilizzano da anni per – a seconda delle versioni – combattere l’ISIS, addestrare “ribelli moderati” anti regime, o semplicemente impedire alla Siria di riassumere il controllo del proprio territorio nazionale.

Al-Tanf, tra l’altro, ha una peculiarità geografica notevole: si trova esattamente sulla rotta più breve che collega Baghdad a Damasco e poi a Beirut. Un tappo perfetto per isolare economicamente la Siria e impedire qualsiasi flusso di merci (o armi) dall’Iran verso Hezbollah. Una coincidenza, naturalmente. E se Israele ha usato più volte lo spazio aereo intorno ad al-Tanf per bombardare obiettivi in Siria, beh, questo dimostra solo quanto sia importante avere “buoni vicini”.

Il prezzo della “partnership”

Il ministro degli Esteri siriano Asaad Shaybani ha dichiarato con entusiasmo che la visita del leader siriano Ahmed al-Sharaa a Washington aprirà “una nuova pagina” nelle relazioni bilaterali e servirà a “costruire una partnership molto forte” con gli Stati Uniti. La partnership, presumibilmente, include la graduale rimozione delle sanzioni che per anni hanno strangolato l’economia siriana, impedito la ricostruzione del paese e colpito duramente la popolazione civile.

In cambio, la Siria deve solo accettare qualche piccolo compromesso: truppe americane nella capitale, smilitarizzazione del sud del paese, un corridoio aereo permanente per permettere a Israele di bombardare chiunque osa minacciarla, l’integrazione forzata delle milizie curde nell’esercito nazionale (con armi e autonomia da negoziare), e naturalmente la rinuncia a qualsiasi velleità di sovranità sulle Alture del Golan, in barba a tutte le Risoluzioni Onu a riguardo e il celebre Diritto Internazionale.

La “lotta al terrorismo” che non tramonta mai

Ufficialmente, Al Sharaa andrà a Washington per discutere l’ingresso della Siria nella coalizione internazionale contro l’ISIS. Il fatto che gli Stati Uniti abbiano circa mille soldati sparsi tra le basi nel nord-est siriano (vicino ai giacimenti petroliferi di al-Omar, altra curiosa coincidenza geografica) e al Tanf è solo un felice precedente.

E se qualcuno osasse far notare che la presenza militare americana in Siria non è mai stata autorizzata né dal governo di Damasco (né quello passato né quello attuale, almeno finora) né da un mandato delle Nazioni Unite, beh, questo dimostra, secondo gli espertoni, consiglieri e consulenti di casa nostra filo americani, solo quanto poco si capisca di “lotta al terrorismo globale”.

Il nuovo ordine mediorientale

Washington ha una strategia ambiziosa per la regione: entro fine anno chiudere i principali dossier regionali. Normalizzazione tra Siria e Israele (in corso), integrazione dei curdi nell’esercito siriano (work in progress), definizione del dossier israelo-libanese legato al disarmo di Hezbollah (da fare). Il tutto mentre Israele continua allegramente a bombardare la Siria, occupare territorio siriano fino a 20 chilometri da Damasco, e promettere protezione ai drusi del sud contro le “milizie jihadiste” vicine ad Al Sharaa.

Nel frattempo, Russia e Iran – che hanno sostenuto militarmente la Siria per anni e hanno ancora basi operative nel paese (Tartus e Hmeymim per Mosca) – osservano con crescente fastidio questo “riposizionamento strategico” della Siria verso Washington.

Ma al di là del: “Ve l’ho avevamo detto”, commenti e ammonizioni di analisti e osservatori, alla fine, il piano occidentale per “Cambio di Regime” in Siria con 12 anni di guerra, devastazione e migliaia di vittime, aveva proprio questo obbiettivo.

In definitiva, la nuova base americana a Damasco rappresenta l’ennesimo capitolo della lunga tradizione statunitense di “portare sicurezza e Democrazia” in Medio Oriente. Una “Democrazia” sui generis, dove un ex detenuto e jihadista decide la sorte di una intera nazione. E una sicurezza che, stranamente, passa sempre attraverso la presenza militare americana, la limitazione della sovranità dei paesi ospitanti, e la garanzia degli interessi strategici israeliani.

Forse è solo questione di prospettiva. Come direbbe il portavoce del Pentagono: “Non è un’occupazione, è una partnership strategica per la stabilizzazione regionale e la lotta al terrorismo”. Che è un modo molto elegante per dire: “Siamo qui, ci restiamo, e sarete voi a ringraziarci”. Mentre la minaccia di una spartizione della Siria in zone di influenze regionali e cantoni su base etnico religiosa è solo rimandata, per ora.

Benvenuti nel nuovo Medio Oriente. Stesso del vecchio, ma con più eufemismi.


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