(Alessia Lai) – Non stupisce la decisione, presa lunedì dalla Corte Suprema statunitense, di respingere il ricorso del governo di Buenos Aires contro una sentenza che imponeva il pagamento di 1,3 miliardi di dollari più interessi agli obbligazionisti non ristrutturati, quelli cioè che non avevano accettato i termini della ristrutturazione del debito argentino del 2005 e del 2010. Si tratta, infatti, di creditori che avevano speculato sul default argentino del 2001, i cosiddetti “fondi avvoltoio” che acquistarono a prezzi stracciati i titoli di stato di Buenos Aires rastrellandoli a cifre irrisorie.
Parliamo non di piccoli risparmiatori, che in grandissima parte hanno accettato le due ristrutturazioni proposte da Buenos Aires, ma di fondi speculativi che hanno messo in atto un’operazione già andata in porto in altre occasioni. Il fondo NML Capital del miliardario statunitense Paul Singer cerca di ottenere un risultato simile a quelli raggiunti anni addietro in Perù e in Congo. Nel primo caso, per alcuni buoni in default acquisiti per 11,4 milioni, il fondo ottenne 58 milioni e per quanto riguarda il paese africano riuscì a convertire – mediante forti pressioni – un debito comprato a 20 milioni di dollari in un pagamento di 90 milioni.
L’Argentina non intende fare lo stesso, lo ha detto e ribadito in una lotta che va avanti da 12 anni. Dopo la sentenza di lunedì, il caso tornerà in tribunale e, soprattutto, tornerà nelle mani di Thomas Griesa, giudice che ha già condannato due volte l’Argentina a pagare quanto richiesto dai fondi speculativi statunitensi. La “presidenta” argentina, Cristina Fernandez de Kirchner, ha definito «un’estorsione» l’annuncio della Corte Suprema americana e, a caldo, ha ribadito che il governo porterà avanti «tutte le strategie necessarie affinché chi ha avuto fiducia nel paese riceva i propri soldi», riferendosi a quel 92,4 percento dei creditori post default che hanno accettato la rinegoziazione dei tango bond.
Tuttavia le notizie che sono arrivate qualche giorno dopo, mercoledì, delineano un quadro complicato: il Ministero dell’Economia argentino ha rilasciato infatti una dichiarazione in cui si afferma che è «impossibile» effettuare il pagamento del debito relativo al 30 giugno – tranche destinata ai creditori che hanno accettato la ristrutturazione – in quanto la Corte statunitense ha revocato la misura precauzionale che aveva permesso al governo argentino di non compiere i pagamenti in sospeso ai “fondi avvoltoio” che non avevano accettato le ristrutturazioni offerte nel 2005 e nel 2010. Questo perché non sono state accolte le due istanze presentate da Buenos Aires alla Corte Suprema Usa: la prima sosteneva che non si può considerare un paese colpevole di non ottemperare alla clausola del pari passu – che richiede la parità di trattamento dei creditori – se questo effettua periodici pagamenti degli interessi a coloro che hanno accettato la ristrutturazione mentre non paga nulla a coloro che l’hanno respinta (dalla prima ristrutturazione, nel 2005, l’Argentina ha sempre onorato i suoi impegni con coloro che hanno accettato il cambio).
La seconda istanza contestava la possibilità per un tribunale distrettuale come la corte di New York, di ordinare la disponibilità di beni di un paese quando questi sono coperti dalla legge di immunità sovrana. Thomas Griesa, infatti, aveva ordinato che il denaro usato da Buenos Aires per pagare gli obbligazionisti che avevano accettato la ristrutturazione venissero sequestrati e girati ai fondi creditori.
Ora, con il rifiuto della Corte di accogliere il ricorso argentino, è stata di fatto accolta la sentenza che ha beneficiato i “fondi avvoltoio” e questo significa che entra in vigore l’ordine di pagamento ai fondi speculativi disposta da Griesa. Il Ministero dell’Economia ha ribadito che l’Argentina è disposta a cancellare un debito ristrutturato in linea con le norme del diritto argentino, tuttavia, la decisione statunitense impedisce di farlo senza pagare anche i creditori “avvoltoio”. La conferma è arrivata dal capo di gabinetto argentino, Jorge Capitanich, il quale ha affermato che: «La revoca della sospensione pone un problema in quanto impedisce all’Argentina di eseguire il pagamento della prossima trance di debito, il 30 giugno, a meno che non vengano pagati contemporaneamente anche i “fondi avvoltoio”». Capitanich ha aggiunto che il giudice americano Thomas Griesa, con la sua decisione introduce un’alterazione di tutte le condizioni di ristrutturazione, generando profitti fino al 608.000 per cento a un creditore che non era titolare del debito originario, ma il pericolo più grande sarebbe in realtà la richiesta di trattamento paritario, che potrebbe raggiungere i 30 miliardi di dollari, da parte del resto degli obbligazionisti: il 93% dei creditori, quelli che hanno accettato la conversione del debito, potrebbe infatti rivendicare il pieno pagamento sulle sue obbligazioni in virtù della clausola di pari passu. Da anni, il governo argentino continua a esplorare tutte le istanze giudiziali possibili mentre, parallelamente, continua a proporre la rinegoziazione cercando di ottenere il rientro dei bond oggi in mano agli speculatori. Nel maggio del 2013 la procuratrice generale dell’Argentina, Alejandra Gils Carbó, aveva raccomandato alla Corte Suprema argentina di respingere la sentenza del giudice statunitense Thomas Griesa in base alle norme del diritto argentino.
Insomma, al di là delle risoluzioni adottate dalle Corti nordamericane, la giustizia argentina e in particolare la Corte suprema, ha gli strumenti per affiancare la strategia di rinegoziazione del debito del governo. «Così come stabilito dal nostro ordinamento, così come nei trattati internazionali e nel diritto comparato, il giudice nazionale può controllare che la decisione straniera non metta a repentaglio l’ordine pubblico», aveva affermato la Carbó citando l’articolo 517 del CPCC, Código Procesal Civil y Comercial de la Nación, il quale stabilisce che il riconoscimento della forza esecutiva di una sentenza straniera è subordinato al fatto che questa «non pregiudichi i principi dell’ordine pubblico del diritto argentino». Per la procuratrice, insomma, «la prerogativa del governo argentino di ristrutturare il suo debito di fronte ad una situazione di emergenza estrema attiene all’ordine pubblico locale e alla sovranità dello Stato: sono gli organi rappresentativi del Governo designato per la Costituzione Nazionale – e non un creditore individuale, o un tribunale straniero – a stabilire le politiche pubbliche». Un concetto ribadito a distanza di un anno da Jorge Capitanich, che ha notato come «il provvedimento del giudice Griesa, tecnicamente incorre nei limiti dello Stato argentino». Capitanich ha aggiunto che l’Argentina è disposta a cancellare il debito mantenendo gli impegni assunti con la Banca Interamericana di Sviluppo, la Banca Mondiale, Fondo Monetario Internazionale, e altre agenzie economiche.
Tuttavia gli attori in campo, in un’economia globale come quella attuale, sono le grandi entità finanziarie, i fondi speculativi capaci di mettere in ginocchio intere nazioni con le loro manovre. Entità per la grande maggioranza statunitensi, che godono di legami stretti con i governi nordamericani. Occorre ricordare che negli ultimi mesi l’Argentina, un paese risollevatosi da un default causato dalle politiche iperliberiste dei governi filo-Usa e che negli anni recenti aveva registrato una importante crescita economica, è stata vittima di attacchi speculativi sul peso che hanno indebolito la moneta nazionale e fatto impennare il valore del dollaro al mercato nero. A fine dello scorso gennaio il ministro dell’Economia Axel Kicillof, in un’intervista al quotidiano Pagina 12, denunciava il tentativo di alcuni settori finanziari e dell’economia argentina che indebolendo la moneta nazionale cercavano di «destabilizzare il governo». In quegli stessi giorni il finanziere Paul Singer, il proprietario del fondo avvoltoio MNL Capital beneficiato lunedì dalla sentenza della Corte Suprema Usa, affermava che la tempesta finanziaria che si stava abbattendo su Buenos Aires era frutto delle politiche «orrende» del governo e si augurava che la situazione imponesse al governo una serie di misure fra cui «l’accordo con i suoi creditori».
A distanza di pochi mesi, la sentenza statunitense ha l’effetto di esporre ancora una volta Buenos Aires agli attacchi del mondo finanziario: il Fondo Monetario Internazionale (Fmi) – liquidato e cacciato dall’Argentina dal presidente Nestor Kirchner – si è detto «preoccupato» per le potenziali ripercussioni «maggiori» che la sentenza potrebbe avere sul sistema finanziario. E puntuale, l’agenzia di rating Standard & Poor’s ha tagliato il rating dell’Argentina a CCC- da CCC+ evidenziando, con il downgrade, i maggiori rischi di default sul debito argentino in valuta estera. Pochi giorni fa, appresa la notizia della sentenza della Corte statunitense, la “presidenta” Cristina Kirchner ha affermato di non essere stata sorpresa dalla decisione, precisando che quello che l’Argentina affronta di questi tempi «non è un problema finanziario o giuridico, ma riguarda un modello di business a scala globale» che potrebbe portare a «tragedie inimmaginabili». La lotta di Buenos Aires contro la finanza speculativa va avanti…