Dizionario dell’islam/ Breve storia del Wahhabismo


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(Alessio Pinna) – Wahhabismo è uno dei tanti termini, non onnicomprensivo ma filologicamente tra i più corretti, con cui può essere indicata l’ideologia alla base delle correnti più oscurantiste all’interno del variegato panorama dell’islam sunnita contemporaneo. In realtà i seguaci veri e propri di questo filone estremamente minoritario preferiscono utilizzare il termine salafiyya, da salafiyyun cioè i “pii antenati” a cui affermano di ispirarsi, e ad essi vengono accomunati gli aderenti ad altre branche connesse ma non esattamente sovrapponibili come i talebani afghano-pakistani, la setta deobandi o le frange più intransigenti dei Fratelli Musulmani egiziani, ma è indubbio che tutti costoro abbiano una correlazione con l’opera di riforma reazionaria iniziata nell’era moderna dall’ideologo Muhammad ibn ʿAbd al-Wahhàb.

Nato all’inizio del XVIII° secolo nell’attuale Arabia Saudita (allora parte dell’impero ottomano in declino) questo predicatore forgiò una dottrina che, sebbene osteggiata dalla gran parte dei dotti islamici del tempo, riuscì ad assicurarsi la sopravvivenza legandosi alla nascente dinastia saudita. Prendendo le mosse dalla scuola d’interpretazione giuridico-religiosa hanbalita, già particolarmente severa e attualmente come allora presente nella sola penisola arabica, al-Wahhàb cominciò ad elaborare la sua personale teoria per cui lo stato di decadenza in cui versava l’islam dei suoi tempi era determinato dalle evoluzioni che questo aveva subito dai tempi dei mitici salafiyyun, ovvero il profeta Muhammad, i suoi compagni e le generazioni immediatamente successive. Bisognava quindi tornare a quelle consuetudini per riportarlo alla perduta età dell’oro.

In sostanza ogni apporto successivo era da considerarsi un’innovazione che aveva via via minato il rigoroso monoteismo alla base del credo islamico e con questo tutte le materie ad esso connesso come la teologia, la giurisprudenza, la morale, etc. Dunque si sarebbero dovute reintrodurre certe pratiche ormai scomparse e bandire altre quali quelle dei mistici sufi, degli sciiti e di tutte le altre ramificazioni dell’islam, il culto reso ai santi, i pellegrinaggi verso la maggior parte dei santuari, ma anche i costumi non castigati, le festività non direttamente riconducibili ai salafiyyun, gran parte della musica, delle arti figurative, delle sostanze ritenute impure, e così via.

Una tale settaria dottrina non avrebbe probabilmente avuto vita facile se non fosse che al-Wahhàb divenne il mentore di Muhammad ibn Saʿùd, emiro di un clan tribale dislocato nei pressi dell’attuale Riyadh e fondatore dell’omonima dinastia che grazie al sodalizio successivamente stretto con l’impero britannico prese il potere su gran parte della penisola araba riuscendo attraverso altre controverse alleanze a conservarlo fino ai nostri giorni. È vero che esistono altri pensatori radicali precedenti ad al-Wahhàb, come il medievale Ibn Taymiyya, e successivi come l’egiziano Sayyid Qutb, ma la sua figura risulta particolarmente influente per il fatto di essere stata la prima di questo genere nell’era moderna e per l’adozione della sua dottrina da parte della dinastia saudita, la quale oltre a gestire una ricchezza immensa derivante dall’estrazione di petrolio ha un’importante caratteristica: il re in carica può fregiarsi del titolo di custode dei due luoghi più sacri dell’Islam, La Mecca e Medina, cosa che all’interno del mondo islamico sunnita gli attribuisce un’autorevolezza paragonabile a quella dei califfi.

Alessio Pinna ha maturato competenze specifiche presso il Pontificio Istituto di Studi Arabi e Islamistica di Roma e l’Istituto di Scienze Religiose di Oristano nell’ambito della mediazione culturale e, in particolare, nel campo del dialogo interreligioso con persone di fede islamica provenienti da paesi mediorientali e africani. La sua attenzione è rivolta principalmente agli studi comparativi sulle religioni.

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