Damasco – Amman – Beirut: il traingolo negletto nella crisi dei rifugiati siriani


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(Alessandro Balduzzi) – Secondo l’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati, circa otto milioni di Siriani sono sfollati in patria e 4,6 milioni hanno trovato rifugio all’estero. Di fronte a quella che il presidente dell’UNHCR Antonio Guétteres ha definito come la più grave crisi umanitaria della nostra era, l’Europa si sente vittima di un assalto alla diligenza, con i differenti paesi ad adottare politiche la cui assoluta mancanza di coordinamento ricorda la proverbiale “pezza peggiore del buco”.

La Grecia annaspa alle prese con un flusso ininterrotto di migranti e viene accusata da Bruxelles di non saper badare ai propri confini, la politica tedesca di accoglienza odorosa di demagogia pre-elettorale perde ancor più acqua dopo gli assalti di Colonia, la Danimarca vara la confisca dei beni dei richiedenti asilo laddove eccedano i 1350 euro: per il sogno europeo di integrazione, l’inefficace risposta a questa crisi rappresenta un’importante ipoteca.

Che dire allora degli immediati vicini di Damasco, destinazione privilegiata dei Siriani in fuga non tanto per l’accoglienza ivi ricevuta quanto per la prossimità geografica e la porosità delle frontiere? Se l’Europa ha intavolato con Ankara una negoziazione che mira a mantenere i rifugiati siriani entro i confini turchi in cambio di finanziamenti (una “funds for refugees policy” che arriverebbe a includere una fantomatica ammissione in seno all’Unione), la comunità internazionale ha ampiamente negletto due tra i paesi più interessati dal fenomeno migratorio irradiantesi da Damasco: la Giordania e il Libano.

Sia Amman che Beirut hanno alle spalle una lunga storia di accoglienza di cui hanno beneficiato Palestinesi, Iracheni e ora Siriani in fuga dai propri rispettivi Paesi. La soglia critica di tolleranza, tuttavia, sembra essere stata ormai raggiunta.

In un’intervista concessa alla BBC in occasione della visita del ministro degli esteri britannico Philip Ammond nel Regno Hashemita, re Abdullah ha affermato che l’afflusso massiccio di migranti ha prodotto una pressione senza precedenti sullo stato sociale giordano. I 635000 Siriani registrati presso l’ufficio dell’UNHCR ad Amman hanno portato il governo a dirottare il 25% del budget statale sull’assistenza ai rifugiati, della cui presenza risentono anche servizi pubblici in costante sovraccarico. A ciò va ad aggiungersi la saturazione del mercato lavorativo: benché attualmente solo l’1% dei rifugiati abbia un permesso di lavoro, manodopera in eccesso e scarsità di offerte  di impiego alimentano una competizione tra Siriani e Giordani che non fa altro che gettare ulteriore benzina sul fuoco della tensione sociale.

Se Amman piange, neppure Beirut ride: il Libano ospita circa 1,2 milioni di Siriani a fronte di 4 milioni di abitanti, la proporzione tra rifugiati e popolazione nazionale più alta al mondo. Il paese dei cedri si trova ad affrontare una serie di criticità diffuse, privo come è di un Presidente della Repubblica e ulteriormente destabilizzato dal coinvolgimento di Hezbollah nel conflitto siriano a fianco di Assad e di Teheran. Memore dell’ospitalità concessa ai Palestinesi scacciati dalla propria terra negli anni Settanta (la presenza dei quali ha contribuito, pur se in maniera indiretta e non esclusiva, allo scoppio di una lunga e sanguinosa vera civile), il governo libanese non è intenzionato a concedere il bis con i Siriani. Per arginare l’emorragia diretta da Damasco verso il proprio territorio, Beirut ha introdotto controlli più rigidi alle frontiere, e ha allo stesso tempo reso più difficile la permanenza a chi già si trova in Libano.

Da gennaio 2015, infatti, per rimanere nel Paese è indispensabile il rinnovo del visto previa pagamento di 200 dollari e, laddove non si abbia ufficializzato il proprio status di rifugiato, la garanzia di uno “sponsor” libanese. L’introduzione di questa nuova normativa ha fatto sì che il numero di Siriani residenti illegalmente sia drasticamente aumentato, con derivanti limiti alla libertà di movimento, difficoltà nell’accesso al mondo del lavoro, povertà diffusa: secondo un rapporto congiunto tra UNHCR, UNICEF e Programma alimentare mondiale, due terzi dei rifugiati siriani in Libano vivono al di sotto della soglia di povertà, ed è di recente diffusione il rapporto di Amnesty International sullo sfruttamento e le violenze sessuali subiti dalle rifugiate siriane in ambiente lavorativo.

Dopo un lungo periodo in cui la comunità internazionale (e l’Europa nello specifico) hanno fatto orecchie da mercante e assistito semi-inerti alla crisi umanitaria in corso in Medio Oriente, l’arrivo “a domicilio” di parte della suddetta crisi sotto forma di fiumane di gente in fuga ha spinto i potenti della Terra a correre ai ripari. In tale contesto si è svolta il 4 febbraio a Londra la conferenza “Supporting Syria and the Region”, a cui hanno partecipato le delegazioni di più di sessanta paesi nell’intento di raccogliere fondi da destinare ai Paesi maggiormente interessati dall’afflusso di Siriani e all’assistenza verso i rifugiati rimasti nella stessa Siria. A fronte di precedenti conferenze dei donatori il cui ricavato era rimasto ben al di sotto delle aspettative, il summit di Londra ha raccolto più di dieci miliardi di dollari.

L’Europa pseudoassediata si è resa conto che mettere un argine all’emergenza migratoria cercando di relegarla in Medio Oriente non significa lavarsi pilatescamente le mani, bensì metterle al portafogli. Per ovviare ai disastri mashreqini perpetrati dall’Occidente ormai è troppo tardi.

 

 

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