(Simona Planu) – È una striscia di mare di appena 6 miglia quella che separa la Turchia dalla zona nord dell’Isola di Lesvos, ed è solo una delle frontiere che i migranti devono attraversare alle porte d’Europa. L’odissea di chi si sposta alla ricerca dei diritti umani, come recitano i cartelli mostrati dagli uomini che, a Calais, in mezzo alle macerie degli alloggi distrutti dalla polizia francese, hanno cucito le loro labbra in segno di protesta contro un’ Europa blindata e contro i respingimenti, è solo all’inizio.
Negli ultimi anni Harmanli, Idomeni, Calais hanno mostrato le conseguenze di un sistema di accoglienza che arriva al limite della dignità umana; sono stati scenario della violenza di gruppi xenofobi e di violente repressioni da parte delle autorità di frontiera. La situazione alle frontiere, però, è solo l’aspetto più immediato di una politica comune che non riesce a dare risposte alla richiesta di protezione umanitaria.
I campi rappresentano un orizzonte temporale definito da una situazione reversibile, emergenziale. Gli occhi di Europa hanno preferito non vedere che il reversibile era, invece, cristallizzato in conflitti senza scadenza. Il meccanismo ha funzionato finché le orde di migranti, in fuga dai conflitti e dalla povertà, sono state assorbite da Paesi cuscinetto che ne hanno limitato il riversarsi in Europa. Ne è esempio il Libano che già nel 2014 ospitava circa 1000 000 di rifugiati siriani, con un rapporto di 1:5 sulla popolazione locale. 1000 000 di rifugiati che si sono uniti ai 455000 rifugiati palestinesi registrati all’UNRWA e residenti ormai stabilmente nei 12 campi/città del paese.
Oggi, chi fugge dalle guerre o da una vita di privazioni bussa alle porte d’Europa, ma quelle porte rimangono chiuse.
A Idomeni, al confine greco-macedone, i migranti hanno iniziato la protesta, sdraiati sui binari dei treni dopo la decisione di Croazia, Serbia e Macedonia che, trascinate dalla presa di posizione della Slovenia, hanno deciso di chiudere le frontiere. L’Ungheria ha proclamato lo stato di crisi, ma sono tanti gli stati che stanno pianificando di arginare una possibile ondata dopo le deviazioni imposte dai nuovi blocchi.
Ogni decisione politica sulla gestione della crisi, che sarebbe tesa a migliorare la condizione dei migranti, ha poco a che vedere con il tecnicismo degli standard internazionali. La promessa di nuove strutture per l’accoglienza, agli occhi di chi vaga per l’Europa, alla mercé delle decisioni politiche del momento, è solo una trappola per limitare gli ingressi e favorire i rimpatri attraverso l’identificazione forzata e la richiesta vincolata d’asilo.
In un momento storico in cui l’Europa allarga le condizioni geografiche e economiche per la negazione del diritto d’asilo, il Dossier si propone di analizzare le problematiche connesse alla protezione umanitaria e i motivi delle richieste. Ripercorrendo un immaginario viaggio di ritorno nei paesi di origine si cercherà di dare visibilità al fenomeno dei rimpatri attraverso le dinamiche che si innescano nei paesi in conflitto e che aggravano le condizioni di protezione. (1.continua)