di Alessandro Aramu
Per Hezbollah, da un punto di vista strettamente religioso, la lotta contro gli oppressori è uno degli obblighi fondamentali e richiede una volontà a combattere e a sacrificare tutto, perfino la vita. È accaduto in passato con le occupazioni israeliane ed è capitato recentemente in Siria in un conflitto che, secondo la logica del movimento sciita libanese, è il frutto di un’occupazione straniera. Hezbollah, come altre organizzazioni, coltiva il mito del sacrificio, che implica l’elaborazione di un insieme di simboli e rituali finalizzato a trasformare la morte in un contributo alla nazione. Scuole, strade e monumenti portano i nomi dei martiri, le famiglie degli attentatori sono spesso ricompensate. Lo scopo delle operazioni di martirio è porre fine all’occupazione straniera. Una logica difficile da comprendere per gli occidentali e che costituisce un elemento centrale, seppure controverso, dell’Islam [1].
Ecco perché indicare Hezbollah sic et simpliciter come una forza terroristica, o di resistenza armata, o politica, può essere una banalizzazione pericolosa priva di qualunque pragmatismo politico e diplomatico. «La doppia natura, politica e militare, di Hezbollah», spiega il giornalista Matteo Bressan, «è infatti difficile da separare, soprattutto se si pensa che costruisce il suo consenso interno, andando spesso a sostituirsi allo stato libanese nel campo dell’edilizia, della sanità e dell’educazione»[2].
Hezbollah non è soltanto un movimento organizzato di lotta ma un partito che si è evoluto in un modello di organizzazione socio-politica basata su istanze islamiche. Come tale ha creato una struttura di riferimento per gli interessi della comunità sciita nel sud del Libano (soprattutto nella valle della Bekaa) e nella periferia di Beirut. L’azione politica viene accompagnata con una serie di strutture sul terreno di assistenza alla popolazione (quella sciita in Libano ha ancora uno standard economico e sociale medio-basso) che vedono una grossa partecipazione di volontari: ospedali e cliniche a bassi prezzi, scuole per bambini e per disabili, orfanotrofi, campi scuola per studenti, iniziative sportive, farmacie, raccolta rifiuti, fornitura di piccoli prestiti e sostegno finanziario alle vittime della guerra. Attività svolte con i contributi dei libanesi sciiti all’estero, con la raccolta della zakat (quota di ricchezza elargita a favore della comunità religiosa), con i soldi elargiti dalla Siria e dall’Iran.
Sempre sul piano politico Hezbollah è il polo di aggregazione di altri movimenti presenti in Libano (il “Da’wa” di Muhammad Husayn Faḍlallāh, l’“Associazione degli Ulema Libanesi”, “Amal”). Per questa ragione il Partito di Dio gode di un ampio sostegno popolare, alimentato anche da una capacità mediatica ben radicata dentro e fuori i propri confini nazionali, grazie alla presenza di una propria emittente televisiva satellitare, Al-Manār, una radio, Al-Nour, e vari siti web che offrono in tempo reale un’informazione sulle numerose attività che Hezbollah porta avanti a favore della popolazione sciita.
Il canale televisivo Al-Manār, inaugurato nel 1991 e che dal 2000 trasmette su satellite, rappresenta un caso nel mondo dei media arabi. È, come si direbbe dalle nostre parti, una televisione di partito, esplicitamente affiliata a Hezbollah, con una forte vocazione giornalistica. La definizione però non rende giustizia all’imponente opera di informazione e controinformazione che Al-Manār svolge dalla sua nascita. Il bacino d’utenza del canale è stimato in 10-15 milioni di utenti, di cui tra 800.000 e 1.200.000 in Libano. È il secondo canale televisivo per importanza dopo Al Jazeera nel mondo arabo. Il 40% della programmazione ha carattere politico, il 40% sociale, educativo, religioso o sportivo, il 20% d’intrattenimento (telenovele), l’85% delle trasmissioni sono originali. Il 22% del personale impiegato è femminile.
L’ex direttore, Abdallah Kassir, nel corso di un colloquio che abbiamo avuto in Italia, ha rivendicato, come del resto hanno fatto i suoi successori, la non neutralità del canale, spiegando: «Noi abbiamo adottato i problemi della vita sociale libanese e del mondo arabo in generale, primo fra tutti la causa palestinese che gode dell’appoggio della maggioranza del popolo libanese; perciò è normale essere di parte in questo caso». A proposito della guerra in Siria, Kassir spiega il ruolo della sua emittente e lo fa senza alcun tipo di infingimento: «Al-Manār ha un’agenda politica e sta dalla parte di tutti quelli che sostengono la linea della resistenza contro Israele, contro l’America e contro i takfiri (integralisti salafiti). Come abbiamo seguito tutte le rivolte del mondo arabo così facciamo in Siria. Abbiamo 4 sedi in Siria e operiamo al fianco dell’esercito di Assad trasmettendo in diretta le novità dal campo di battaglia, così come avveniva nel 2006 nella guerra contro Israele»[3].
L’azione di Hezbollah è ispirata al doppio binario dell’ideologia e del pragmatismo. Ha una forte capacità di comprendere e di interpretare le dinamiche nazionali e internazionali con largo anticipo rispetto agli altri attori presenti nello scacchiere regionale. Il saper scindere il discorso religioso dal contesto diplomatico rende questo soggetto del panorama politico libanese un caso da studiare con attenzione. L’errore dell’Europa è non aver capito che Hezbollah è prima di tutto un partito politico e che il suo braccio armato opera sempre con una mentalità politica. Nel corso della cosiddetta “primavera araba”, agli inizi della rivolta, ha appoggiato i ribelli in Libia e in Egitto mentre in Siria non ha esitato a schierarsi con Assad, il suo principale alleato.
Il secondo manifesto di Hezbollah: la fine dell’egemonia degli Stati Uniti [4]
Per comprendere al meglio la complessità del fenomeno Hezbollah, occorre ripercorrere la sua storia, dalla nascita nel 1982, subito dopo l’invasione del Libano e la guerra civile, fino ai nostri giorni. Un fondamentale strumento di conoscenza è rappresentato dal “Secondo manifesto” del movimento sciita, reso noto dall’emittente Al-Manār il 29 novembre del 2009 e presentato il giorno dopo da Nasrallah in uno storico discorso trasmesso da un maxi-schermo alla periferia sud di Beirut[5]. Il “Secondo manifesto” segue quello pubblicato nel 1985, che indicava uno degli scopi del movimento la costituzione di uno stato islamico in Libano, come patria per tutti i musulmani. Il documento, anche alla luce del conflitto in Siria e del ruolo svolto da Israele nel panorama mediorientale, è di grande attualità e merita di essere approfondito. Le numerose prese di posizione di Nasrallah e dei vertici del Partito di Dio hanno poi attualizzato l’azione politica indicata nel documento. Il nuovo Manifesto rispetto al testo del 1985 ha un tono più realistico perché si occupa di teoria politica e di geopolitica[6].
Uno sguardo nell’ampio panorama delle dinamiche internazionali che legittima Hezbollah a ragionare non più come partito o movimento religioso presente nei soli confini libanese, ma come soggetto che agisce in un modo che ha nuove dinamiche e nuovi equilibri.
L’intervento al fianco del governo di Damasco è la diretta conseguenza di questo pragmatismo e di un interventismo che definisce il concetto stesso di resistenza e di lotta armata. In questo contesto trova un senso logico l’espressione «la via della resistenza e dell’opposizione è in fase ascendente». Ciò appare coerente anche per contrastare un dominio e un’egemonia statunitense-israeliana che negli ultimi anni ha subito «sconfitte militari, passi falsi e delusioni che a loro volta mostrano l’ineludibile fallimento delle strategie e dei piani attuati dagli Stati Uniti, uno dopo l’altro».
Hezbollah parla espressamente della crisi degli Stati Uniti e del declino dell’egemonia unipolare in favore di un multipolarismo le cui caratteristiche non sono ancora del tutto chiare. «I movimenti di resistenza», è scritto nel manifesto, «sono nel vivo di queste trasformazioni ed emergono come un fattore strategico nel panorama internazionale, dopo aver ricoperto un ruolo decisamente centrale nella generazione o nella promozione di queste trasformazioni in tutta la nostra regione».
Il Partito di Dio critica il modello capitalista, definito arrogante, e introduce alcune valutazioni che sono state fatte proprio anche dal nuovo modello di Chiesa introdotto da Papa Francesco, in una sorta di dialogo interreligioso che vede Hezbollah impegnato in prima linea, soprattutto con il mondo cristiano. Molto dura è anche la presa di posizione nei confronti dei mercati finanziari occidentali e sul ruolo che essi hanno avuto nell’impoverimento delle nazioni e delle popolazioni. Il capitalismo selvaggio ha dunque trasformato «la globalizzazione in un meccanismo che diffonde disparità e instilla discordia, demolisce le identità e impone il tipo più pericoloso di sfruttamento civile, culturale, economico e sociale».
Inevitabili anche le ricadute sul piano militare, con una dominazione occidentale, «in gran parte manifestatasi nella regione del Medio Oriente, a partire dall’Afghanistan fino all’Iraq, fino in Palestina e Libano e di cui una parte integrante è stata l’aggressione del luglio 2006 per mano israeliana». Il Partito di Dio, prima di altri, ha ben compreso di trovarsi nel mezzo di trasformazioni epocali, con il ridimensionamento del ruolo degli Stati Uniti come potenza predominante, e la presenza di nuovi attori capaci di indicare nuovi modelli di sviluppo economico e sociale. Il manifesto del 2009 non affronta il tema delle rivoluzioni arabe perché a quel tempo non erano incominciate.
Sugli eventi che si sono verificati in Egitto, Libia e Tunisia si è pronunciato Ali Fayyad[7], parlamentare libanese e membro della direzione di Hezbollah, che da un lato ha apprezzato il protagonismo del popolo arabo in quelle rivoluzioni e, dall’altro, ha criticato gli Stati Uniti per essere entrati in quegli sviluppi regionali con l’obiettivo di aggiustarli e indirizzarli secondo i loro interessi. Secondo Ali Fayyad, nel medio termine ci sono molte richieste in campo, tra cui libertà e democrazia, mentre in futuro dovranno essere affrontate questioni basilari come quella palestinese.
È doveroso dire che sul tema delle rivoluzioni nel Nord Africa non tutti nel movimento sciita libanese la pensano allo stesso modo: c’è per esempio chi non vuole sentir parlare di “primavera” e parla di eventi strumentalizzati dalle potenze occidentali che hanno voluto condizionare ancora una volta una parte del mondo arabo. Certamente l’atteggiamento verso la Siria dei Fratelli musulmani, che sono saliti al potere in Egitto per poi essere destituiti dalle manifestazioni di piazza e dall’esercito, ha avuto un forte peso nei giudizi negativi. Non è da sottovalutare neppure il fatto che la stessa Tunisia, coinvolta da quei moti popolari, ha visto crescere la presenza di estremisti salafiti nel proprio territorio, molti dei quali sono andati a combattere la guerra in Siria contro Assad, alleato di Hezbollah. È indubbio che Al-Qāʿida stia riuscendo in Siria a cogliere quell’occasione che le era sfuggita in altri Paesi: cavalcare la “primavera araba” e penetrare in nuovi territori. Sino a ora si era infatti limitata a sostenere le rivolte con vari proclami, messaggi audio, video e riviste jihadiste online, provando a conquistare spazio solo in Libia e nello Yemen. Oggi lo spettro di azione della “centrale del terrore” si è allargata ed è arrivata ai confini dell’Europa[8].
A proposito di terrorismo, il secondo Manifesto affronta anche questo aspetto, che assume un nuovo significato dopo la guerra in Siria, il ruolo svolto dalle potenze occidentali in quel conflitto e l’inserimento di Hezbollah, da parte dell’unione Europea, nella lista nera dei movimenti da mettere al bando. La definizione di terrorismo si è trasformata in un pretesto americano per praticare l’egemonia attraverso i più svariati mezzi di oppressione, spesso contrari al diritto internazionale. Attraverso questa politica, gli Stati Uniti (e una parte del mondo occidentale) hanno inflitto pene ad intere nazioni e popoli, anche attraverso guerre che non distinguono tra innocente e criminale, bambino e anziano e uomo e donna. Hezbollah non ha dubbi: «Il terrorismo degli Stati Uniti è il fondamento di ogni aspetto del terrorismo in tutto il mondo».
Hezbollah già nel 2009 ha la consapevolezza che gli Stati Uniti, seguiti da Europa e Israele, faranno di tutto per proteggere ciò che chiamano «interessi strategici», stringendo nella loro morsa il mondo arabo e islamico. La guerra in Siria degli anni seguenti, il cui conflitto è stato alimentato dalle politiche della Casa Bianca e dai governi dell’Europa, ne è una prova lampante. «L’ambito vitale, la geopolitica, la dimensione strategica, le politiche di integrazione regionale e gli interessi nazionali hanno reso inevitabile per il Libano di impegnarsi per le cause arabe giuste ed eque, fra le quali primeggia la causa palestinese e il conflitto con il nemico israeliano».
Il Partito di Dio sa che la divisione nel mondo arabo è un fattore di instabilità e di debolezza che può essere sfruttato da tutti coloro che hanno mire espansionistiche sulla regione. La guerra in Siria ha purtroppo alimentato le discordie, il settarismo, i fattori di divisione e di disgregazione del mondo arabo, facendo inevitabilmente un favore a Israele e agli Usa. Queste divisioni hanno non solo rafforzato i nemici di Hezbollah ma indebolito anche la causa palestinese. Ancora una volta emerge una visione che sa guardare oltre gli stretti confini nazionali, una visione in cui agli elementi ideologici si aggiunge una concretezza che non ha eguali nell’azione dei movimenti politici in Medio Oriente.
La scelta della Resistenza, nell’ottica di Hezbollah, costituisce ancora una volta una necessità e, al contempo, un fattore obiettivo di rafforzamento della posizione araba, di indebolimento del nemico e di benessere della popolazione. Per questa ragione i vertici di Hezbollah si rivolgono alle masse con un semplice messaggio fatto di speranza futura. Le masse comprendono quel messaggio e sostengono il movimento di cui si sentono parte integrante e protagonisti assoluti.
Hezbollah interpreta anche il sentimento nazionale contro Israele, un sentimento che unisce gran parte del mondo arabo e supera le divisioni religiose. È opinione comune che Israele rappresenti una «minaccia eterna per il Libano e un reale pericolo a causa delle sue ambizioni storiche sulla terra come sull’acqua». In più la presenza del Libano ai confini della Palestina occupata, «in una regione particolarmente instabile a causa della continua lotta con il nemico israeliano», ha reso inevitabile per il Partito di Dio l’assumersi delle responsabilità nazionalistiche e l’organizzazione in una struttura di carattere militare di difesa del territorio e della popolazione, non solo sciita. Una condizione che dal 2009 è rimasta immutata e che la crisi siriana ha persino aggravato, facendo si che la struttura armata di Hezbollah fosse impegnata in più fronte, dentro e fuori i confini nazionali. La Resistenza ancora oggi è vista come un «mezzo nazionale, necessario e continuato, almeno fino a quando continueranno le minacce israeliane» che obbligano il Libano «ad adottare una strategia difensiva composta da una resistenza popolare che partecipa a difendere il Paese e da un esercito che opera per la protezione e la salvaguardia della sicurezza e della stabilità». Ecco perché considerare terrorista l’ala militare di Hezbollah, oltre che essere una colossale sciocchezza, è anche un pericolo per la sicurezza e l’integrità dell’intero Stato libanese.
Il ruolo di Hezbollah nel mosaico mediorientale e nello scacchiere internazionale continua a essere strategico e la presenza di questo movimento è una condizione di stabilità in una regione che vive di fragili equilibri, di pesi e di contrappesi non facilmente classificabili secondo i parametri della democrazia occidentale. Il venir meno di questo importante soggetto politico avrebbe serie ripercussioni sull’intera regione, con effetti che oggi non si possono prevedere. Certamente la causa del popolo palestinese ne sarebbe indebolita, mentre più forti sarebbero gli scontri interreligiosi e le rivendicazioni delle frange più estremiste del mondo islamico. Probabilmente, senza la presenza di Hezbollah, il terrorismo internazionale troverebbe un terreno più fertile dentro e fuori il Paese.
Oggi il movimento sciita costituisce il più efficace mezzo di protezione per il Libano dalle ingerenze esterne. La sua lotta e il suo impegno hanno consentito di liberare la terra dalle truppe straniere, di ripristinare le istituzioni statali, di salvaguardare la sovranità e di raggiungere finalmente la vera indipendenza. Di questa azione, tutti i partiti politici, le classi sociali, le organizzazioni culturali e gli organismi economici libanesi devono essere profondamente grati, anche assumendosi la responsabilità di una partecipazione comune nella difesa del Paese. Il mondo arabo, anche quello che sotto il profilo confessionale è più lontano dal movimento sciita, deve prendere atto che l’indebolimento di una sua parte significa indebolire un’idea del mondo in cui gli Stati Uniti non sono più egemoni. A meno che non si voglia ritornare al passato, quando la supposta supremazia della civiltà occidentale ha determinato conflitti che ancora oggi producono effetti nefasti sulle popolazioni di vaste aree del pianeta. (Twitter@AleAramu)
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[1] Per gli sciiti, il martirio assume uno speciale significato grazie all’esempio del terzo imam, il nipote del profeta, Husayn. Il suo martirio ha prodotto una voluminosa tradizione di elegie e opere poetiche, lette durante le cerimonie di lutto. L’alta considerazione nella quale sono tenuti i martiri, e la penetrante consapevolezza del fenomeno del martirio non possono essere spiegate facilmente. I martiri sono eroi. Il martirio dell’imam Husayn è un grande esempio di coraggio di fronte alla persecuzione, e non viene enfatizzato semplicemente il fatto che fu ucciso, ma che stava lottando contro l’oppressione. Coloro che muoiono per la causa di Dio, ottengono una grande condizione sociale. Quando una persona o un atto meritevole devono essere esaltati, si dice che quella particolare persona ha lo status di martire, o che quel particolare atto merita il premio di martirio. Si veda in proposito G. Carfora, Il popolo che accetta la morte non morirà, Edizione Melagrana, 2011.
[2] Ternano, classe 1981, Matteo Bressan è un giornalista autore di Hezbollah, tra integrazione politica e lotta armata, Data News 2012, saggio dedicato al Partito di Dio. Ha maturato un’importante esperienza presso il Centro Alti Studi per la Difesa. Con la sua ricerca e la sua permanenza in Libano ha approfondito la conoscenza sul ruolo di Hezbollah nelle maglie ecosociali della popolazione, in particolare di quella sciita, facendo emergere gli aspetti e le caratteristiche meno note di quello che da molti, nel mondo arabo, viene considerato un movimento di resistenza.
[3] Si veda il sito “sardegna.centroitaloarabo.it”.
[4] Il presente paragrafo fa riferimento al “Secondo Manifesto” di Hezbollah riportato integralmente in appendice con traduzione italiana.
[5] La vera novità del nuovo programma politico del movimento sciita, che nel 1985 lottava per la costituzione di uno stato islamico in Libano, è l’accettazione di un Paese multi-confessionale e pluralistico retto da un sistema democratico. «Il Libano è la nostra patria e vogliamo che lo sia per tutti i libanesi, unito, libero, sovrano, indipendente e forte», recita il nuovo manifesto, in aperto contrasto con quello di ventiquattro anni prima, nel quale Hezbollah si dichiarava parte della umma, la nazione musulmana. Nasrallah ha poi rinnovato il rifiuto del «principio di negoziazione» con Israele e del riconoscimento «dell’entità sionista», ribadendo però che il conflitto con lo Stato ebraico non è né “religioso” né “razziale”. Nasrallah ha parlato anche della «permanente necessità di mantenere attiva la Resistenza», il braccio armato di Hezbollah, in funzione “complementare” all’esercito libanese. Il leader sciita non ha fatto però alcun riferimento alla risoluzione 1701 dell’onu, che nel 2006 aveva interrotto le ostilità fra Hezbollah e Israele e che da allora chiede il disarmo dell’organizzazione. Nel nuovo manifesto si auspica infine l’abolizione del confessionalismo, il sistema di spartizione del potere fra cristiani e musulmani secondo rigide quote confessionali. Nel frattempo però, secondo quanto annunciato da Nasrallah, è necessario mantenere “una democrazia consensuale” (Cfr. “Ansa”, 30 novembre 2009).
[6] «V’è in seno al partito l’idea di aver realizzato un’impresa eccezionale nell’estate del 2006 e dunque “la via della resistenza e dell’opposizione è in fase ascendente”. Ma il merito non è solo della lotta. Quasi echeggiando certe teorie marxiste, il sistema-mondo statunitense sembra destinato al collasso, se non altro per motivi economici. Il mercato condiziona tutti gli aspetti della vita e dunque della politica. L’egemonia a sua volta è lo strumento tramite il quale si mantiene uno status quo asservito agli interessi particolaristici. Episodi come il fallimento delle operazioni militari in Afghanistan e in Iraq sono al contempo la dimostrazione della cospirazione mondiale in atto e la riprova del suo necessario fallimento» (cfr. P. Longo, Il Secondo Manifesto di Hezbollah, “Eurasia. Rivista di studi geopolitici”, 2010).
[7] A. Lano, Ali Fayyad: unità del mondo islamico e cristiano contro progetti di destabilizzazione del Mediterraneo e Medio Oriente, in “Infopal”, 25 agosto 2012.
[8] Per comprendere quale sia stato l’atteggiamento di Al-Qāʿida nei confronti della “primavera araba” merita un breve approfondimento l’evoluzione del tenore dei “proclami” con cui essa sin dall’inizio, davanti ai primi successi ottenuti in Tunisia ed Egitto, si è preoccupata di spiegare la sua posizione rivolgendosi spesso più ai musulmani in occidente che ai popoli in rivolta. Allo scoppiare delle proteste, a inizio 2011, Al-Qāʿida sostenne come difformemente da quanto si potesse pensare le rivolte nel Medio Oriente e Nord Africa non fossero assolutamente un male per l’organizzazione, che crede nel popolo e lo sostiene nelle rivoluzioni contro i tiranni anche quando sono pacifiche, poiché l’uso della forza nella filosofia dell’organizzazione sarebbe lecito ma non necessario. Dura fu, inoltre, la critica mossa all’occidente per il suo falso appoggio alle legittime richieste dei popoli contro tiranni spesso “amici dell’occidente”, amici prontamente abbandonati con il solo scopo di accattivarsi le masse. I proclami dell’organizzazione hanno poi ben presto, davanti all’intensificarsi degli scontri in Libia e Yemen, iniziato ad invitare l’intera comunità dei fedeli musulmani, l’ummah, a unirsi ai fratelli in lotta per rimuovere regimi definiti “amici dell’America”, che proprio grazie a essi ha potuto per anni concentrarsi in Afghanistan, Pakistan e Iraq sulla c.d. “lotta al terrorismo”, lasciando spesso a tali regimi il “lavoro sporco”. Rimossi questi tiranni si potrà – stando sempre ai messaggi diffusi da Al-Qāʿida – riportare l’attenzione alla Palestina, così che presto finalmente si canterà “Here we start and in al-Aqsa we’ll meet”, con tutto quello che il rimando alla moschea di Gerusalemme come noto comporta. Si cfr. L. Quadarella, L’avanzata degli estremisti islamici in Siria, in “Osservatorio analitico”, 30 settembre 2012 (www.osservatorioanalitico.com).
Tratto dal libro: Middle East, le politiche del Mediterraneo sullo sfondo della guerra in Siria (Arkadia editore)
Alessandro Aramu – Giornalista professionista, direttore della Rivista di geopolitica Spondasud. Autore di reportage sulla rivoluzione zapatista in Chiapas (Messico) e sul movimento Hezbollah in Libano, ha curato il saggio Lebanon. Reportage nel cuore della resistenza libanese (Arkadia, 2012). Per il quotidiano La Stampa ha pubblicato il reportage “All’ombra del muro di Porta di Fatima”, mostrando per la prima volta in Italia la nuova barriera che ha diviso il Libano da Israele. È coautore dei volumi Syria. Quello che i media non dicono (Arkadia 2013), Middle East. Le politiche del Mediterraneo sullo sfondo della guerra in Siria (Arkadia Editore 2014) con la prefazione di Alberto Negri. E’ autore e curatore del volume Il genocidio armeno: 100 anni di silenzio – Lo straordinario racconto degli ultimi sopravvissuti (2015), con Gian Micalessin e Anna Mazzone. Autore, insieme a Carlo Licheri, del docu -film “Storie di Migrantes” (2016), vincitore del premio speciale del pubblico all’ottava edizione dello Skepto International Film Festival. E’ Presidente del Coordinamento Nazionale per la Pace in Siria, responsabile delle relazioni internazionali del Centro Italo Arabo e del Mediterraneo Onlus, Vice Presidente del Centro Italo Arabo e del Mediterraneo della Sardegna.