(Giacomo Laconi) – Negli ultimi decenni gli allineamenti strategici e le alleanze politiche mediorientali si sono modellate lungo la linea di faglia settaria che separa sciiti e sunniti. Questo processo è perfettamente visibile nei principali teatri d’instabilità regionali, come Siria e Iraq, ed è incarnato nella decennale contrapposizione tra l’Arabia Saudita sunnita e l’Iran sciita.
Lo scisma della comunità musulmana ha tuttavia radici ben più antiche dell’attuale contrapposizione tra Riyadh e Teheran. La sua origine risale al VII secolo, quando alla morte del Profeta Muhammad (570 – 632) si originò una disputa per chi ne dovesse ereditare l’autorità. Il suo successore avrebbe acquisito non solo la sua leadership religiosa, ma anche il potere politico e le ricchezze derivanti dai tributi pagati dalle varie tribù dell’Arabia, unificate dal Profeta sotto il vessillo dell’Islam[1].
Si originò così una divisione all’interno della comunità islamica (umma). Gran parte dei musulmani sosteneva che il successore del Profeta (khalīfa, Califfo in italiano) dovesse essere scelto per consenso della comunità (ijma’). I sostenitori dell’elezione per consenso presero il nome di sunniti (ahl as-sunna wa l-jama‛a), termine che indica i seguaci della tradizione del Profeta (Sunna). Vi era però una minoranza di fedeli che considerava come legittimi successori di Muhammad solo gli appartenenti alla sua linea di sangue. In mancanza di figli maschi, essi indicarono come erede legittimo ‘Ali bin Abu Talib, genero e cugino del Profeta, e presero il nome di Shia’t-Ali (partito di ‘Ali). Questi, indentificati poi semplicemente come sciiti, non riconobbero l’autorità dei califfi eletti attraverso consenso, scegliendo invece di seguire una linea di Imām discendente dal Profeta.
La contrapposizione tra i due gruppi si aggravò alla fine del cosiddetto periodo dei “califfi ben guidati” (rashidun), con cui si indica il regno dei primi quattro califfi (632-661): Abu Bakr, ‘Umar, ‘Uthman e ‘Ali. Alla morte di ‘Ali avvenuta nel 661, suo figlio Hussein divenne il leader spirituale degli sciiti, mentre Mu‘âwiya, governatore della Siria e già in passato oppositore di ‘Ali, si proclamò Califfo dando origine al Califfato Omayyade (661-750)[2].
Ebbe così inizio una guerra civile (fitna) all’interno alla umma. L’evento decisivo fu la battaglia di Kerbelāʾ nel 680 durante la quale Hussein venne ucciso e decapitato dai soldati del califfato omayyade. Il martirio di Hussein divenne il simbolo delle persecuzioni, delle violenze e dei soprusi subiti dalla comunità sciita, ed è oggi commemorato durante l’Ashura, la principale celebrazione sciita.
Nei secoli seguenti i sunniti dominarono il mondo musulmano, prima con il Califfato Omayyade e poi con quello Abbaside (750-1258), finché nel 1500 la dinastia Safavide si impose nell’attuale Iran e dichiarò lo sciismo religione di Stato. Nei due secoli successivi l’Impero Safavide si scontrò con quello Ottomano, sede del Califfato sunnita. L’eredità dei due imperi e delle loro battaglie definisce ancora oggi la distribuzione delle due sette islamiche in Medio Oriente e non solo. I sunniti rappresentano la maggioranza della popolazione in più di 40 Paesi, mentre gli unici Paesi a maggioranza sciita sono l’Iran, l’Iraq, il Bahrein e l’Azerbaijan. Un caso particolare è il Libano che ospita numerose confessioni tra le quali un importante comunità di sciiti. A livello globale, i musulmani sono circa 1,6 miliardi di cui l’85% sunnita e il restante 15% sciita.
Lo scisma ha originato delle divergenze nell’interpretazioni dei testi e, quindi, differenti pratiche religiose. Tuttavia, dal punto di vista dottrinale le due sette condividono gran parte dei principi fondamentali dell’Islam: entrambe seguono il Corano, la Sunna (raccolta della condotta di Muhammad) e gli Hadith (i detti e aneddoti del profeta), e aderiscono ai 5 pilastri dell’Islam: shahada, salat, zakat, sawm, and hajj.
Sunniti e sciiti hanno convissuto relativamente in pace per gran parte della loro storia, ma nel Novecento i loro rapporti sono progressivamente peggiorati. Dopo il crollo dell’Impero Ottomano, l’ingerenza occidentale ha scompaginato gli equilibri precedenti e ha dato vita a nuove entità territoriali senza tener conto delle dinamiche sociali, culturali e religiose preesistenti. Ne sono derivati Stati deboli e con una scarsa legittimità popolare. Altri fattori, tra i quali la nascita dell’Iran Khomeinista, l’invasione sovietica dell’Afghanistan, le guerre del Golfo e l’ascesa del Islam politico e del radicalismo islamico, hanno generato caos, guerre e violenze reciproche che hanno aggravato la frattura settaria nella regione.
In questo contesto, la mancanza nell’Islam di una distinzione netta tra autorità politica e religiosa ha fornito agli attori statali la possibilità di sfruttare gli elementi identitari per guadagnare consenso e potere. Questa dinamica è ben rappresentata dalla già citata rivalità saudo-iraniana, in cui l’elemento religioso viene strumentalizzato per giustificare quella che è essenzialmente una propensione espansionistica condivisa da entrambi i Paesi. La questione religiosa, quindi, non può essere slegata da altri fattori politici, economici e geostrategici.
I pericoli legati alla strumentalizzazione delle identità religiose hanno portato alcune delle maggiori cariche religiose sunnite e sciite, come il gran mufti dell’Arabia Saudita Abdul Aziz ash-Sheikh e l’Ayatollah iracheno Ali al-Sistani, ad avere degli approcci moderati e conciliatori. Sebbene tra queste due figure vi siano delle importanti divergenze, le loro posizioni mostrano come all’interno del mondo musulmano vi siano dei tentativi di arginare l’estremizzazione delle differenze settarie. È chiaro, infatti, che tali differenze siano un grave ostacolo alla creazione di società coese in Medio Oriente, contribuendo così a indebolire gli Stati mediorientali e ad aumentare l’instabilità dell’intera regione.
[1] Hazleton, Lesley, After the Prophet: The Epic Story of the Shia-Sunni Split in Islam, New York, Doubleday, 2009.
[2] Silverstein, Adam J., Breve Storia dell’Islam, Roma, Carocci Editore, 2013.