(Bruno Scapini) – Era già da qualche tempo che la Casa Bianca lasciava trapelare il proprio disappunto per la proterva convinzione di Netanyahu a dover proseguire con la efferata operazione di pulizia nella Striscia di Gaza fino alla completa eliminazione di Hamas. Una decisione, questa, presa dal Premier israeliano non solo per compiacere quella parte di opinione pubblica convinta di dover conseguire ad ogni costo un adeguato livello di sicurezza nazionale, ma anche, e soprattutto, per compiacere se stesso, ben consapevole che solo il protrarsi della guerra contro Hamas, e contro la sopravvivenza del suo fantasma, potrebbe salvarlo dal linciaggio politico cui le forze di opposizione sembrerebbero volerlo sottoporre. Questioni di affari interni si tratta. Affari che vedono il Primo Ministro israeliano investito da gravi inchieste giudiziarie (per corruzione) capaci di incidere chiaramente sulla eziologia di questa sua arrogante determinazione, come anche sui suoi stessi destini in politica.
Non importa quanti morti potrà ancora causare tra i Palestinesi, né quanti bambini verranno ancora uccisi o mutilati. Solo la sua incrollabile ostinazione a continuare la guerra nella Striscia, in nome di un condiviso interesse nazionale, potrebbe, infatti, salvarlo.
Ma è sulla assoluta necessità di questa carneficina che oggi cominciano a trasparire i primi segnali di un profondo dissenso.
Se da parte dei c.d. Paesi dell’ “asse della resistenza” poteva essere ben chiaro fin dal 7 ottobre scorso che la reazione israeliana all’attacco di Hamas sarebbe stata violenta e rabbiosa, nel mondo occidentale, per contro, una prevalente parte della pubblica opinione ha inteso giustificare l’operazione israeliana – allineandosi sull’emotività espressa dalle locali comunità ebraiche – come un atto di legittima difesa inteso non solo a garantire la sicurezza del Paese, ma anche a proteggere e tutelare l’incolumità dei coloni israeliani sparsi lungo i confini, e desiderosi, al pari dei più noti pionieri americani del Far West, di avanzare sempre più nelle terre palestinesi creando situazioni di annessione di fatto dei territori. Che un’idea speculativa sorregga al contempo l’operazione di pulizia etnica a Gaza verrebbe, peraltro, dimostrato dall’interesse manifestato da alcune imprese edili israeliane di lanciare progetti di valorizzazione urbanistica proprio in aree costiere della Striscia, ora distrutte dai bombardamenti, e nella stessa Gerusalemme. Lo testimonierebbero del resto la pubblicità propagandata dalla Harey Zahav, società leader del mercato immobiliare in Giudea e Samaria per Gaza (fonte: The Post Internazionale), e il recente tentativo da parte di un imprenditore ebreo di origini australiane di impossessarsi di una vasta porzione di uno storico quartiere della Città Santa sottraendolo al Patriarcato armeno.
Orbene, come detto in premessa, qualcosa oggi sembrerebbe cambiare negli umori occidentali. Il fallimento dei ripetuti tentativi messi in atto dal Segretario di Stato americano, Antony Blinken, di indurre Netanyahu a più miti consigli sulla faccenda di Gaza, deve aver convinto la Casa Bianca (e le lobby che la sostengono) ad adottare un atteggiamento di maggiore incisività nell’assumere una posizione in favore di un “cessato-il-fuoco”. Del resto, la ritrosia registratasi a Capitol Hill tra gli stessi democratici sull’opportunità di fornire ulteriori aiuti militari a Tel Aviv, risulterebbe emblematica di questo mutamento di umore da parte di Washington. Un mutamento di cui, con sorprendente ed inusitato coraggio, anche altri Paesi occidentali (tra cui l’Italia) si farebbero ora interpreti dichiarando, senza tema di essere smentiti, che sì in effetti l’azione militare di Israele a Gaza potrebbe essere considerata proprio sproporzionata.
Già all’indomani dell’attacco del 7 ottobre, su questa stessa testata, si ebbe modo di criticare l’operazione israeliana nella sua fondatezza, e non solo etica, ma anche giuridica. Osservammo, infatti, in quella sede come, sebbene Israele avesse diritto a rispondere all’attacco in una prospettiva di legittima auto-difesa (peraltro ammessa dal Diritto internazionale), le modalità della rappresaglia, già fin dai primi giorni di guerra, non avrebbero lasciato dubbi sulla sua sostanziale sproporzionalità sia in termini di dimensioni dell’operazione condotta dalle IDF, sia per l’enorme entità delle vittime causate ai limiti di una vera e propria carneficina.
Da allora, sempre più Paesi della Comunità internazionale hanno iniziato a guardare alla guerra di Gaza con altre lenti, o allentando il proprio sostegno a Israele o addirittura condannandolo apertamente come fatto dal Sud Africa con la denuncia di Genocidio portata innanzi la Corte Internazionale di Giustizia dell’Aja.
L’ America di Biden, dunque, non poteva per parte sua ignorare questa inversione nel modo di percepire più recentemente la guerra a Gaza. Un modo che ha iniziato a manifestarsi non solo nella Comunità internazionale, ma anche nella stessa pubblica opinione statunitense. Di tutta evidenza, infatti, sarebbe sul punto la necessità avvertita dall’Amministrazione americana, peraltro impegnata di questi tempi in una difficile corsa presidenziale per un secondo mandato, di non alienarsi l’empatia dei Paesi arabi in un momento in cui proprio in Medio Oriente si starebbe consumando lo “strappo” dalla tradizionale linea di fedeltà a Washington. Uno strappo sostenuto da una politica di “riavvicinamento” all’ Iran inaugurata da parte di alcuni primari Paesi del Golfo (sauditi ed emirati), e dalla questione energetica quale vero nodo gordiano che spingerebbe i Paesi arabi produttori a guadagnarsi uno spazio decisionale incisivamente più autonomo nella gestione del mercato.
Se, dunque, i veri termini della guerra israelo-palestinese erano già ben noti a tutti, colpisce ora la repentinità con la quale alcuni Paesi europei, e soprattutto alcuni politici nostrani, siano riusciti a cambiare di orientamento e ad invertire la propria posizione a riguardo di Israele. Pochi giorni orsono, infatti, ancora si gridava all’orrore pensando alla strage operata da Hamas il 7 ottobre a danno della comunità ebraica, ora si inneggia al “cessate-il-fuoco” e si condanna la rappresaglia di Tel Aviv giudicandola come non proporzionata al danno ricevuto. Solo oggi, dunque, dopo il mutamento di posizione di Washington, gli occidentali prendono il coraggio per auto-dichiararsi. E lo fa sorprendentemente, e a nome di tutti gli europei, lo stesso Alto Rappresentante dell’Unione, Josep Borrell. Il che comproverebbe ancora una volta come non solo l’Italia, ma l’Europa tutta sia ormai divenuta un dispositivo tattico, privo di una autonomia di pensiero critico in politica estera, al servizio dell’imperialismo americano.
“Non si muove foglia che Dio non voglia!” recita un antico proverbio italiano. Un detto certamente collegato alla tradizione religiosa, ma che tradotto in termini laici meno letterali vuole significare come nulla accade per caso nel mondo, e tanto meno in quello della politica!