Negli ultimi mesi, la Cisgiordania occupata è stata teatro di una serie di raid militari israeliani su larga scala, ulteriormente intensificati dallo scoppio della guerra a Gaza. Queste operazioni, le più ampie dall’inizio del conflitto, sono giustificate da Israele come necessarie per prevenire attacchi contro i suoi cittadini. Secondo l’esercito israeliano, l’obiettivo principale è “neutralizzare le minacce terroristiche” presenti nei campi profughi, da tempo considerati roccaforti di gruppi armati.
Per comprendere appieno il conflitto israelo-palestinese, è essenziale collocare questi attacchi nel contesto storico e geopolitico più ampio. Israele prese la Cisgiordania, la Striscia di Gaza e Gerusalemme Est durante la guerra del 1967. Mentre Gerusalemme è stata annessa a Israele e Gaza, governata da Hamas, è sottoposta a un rigido blocco dal 2007, la Cisgiordania è rimasta sotto occupazione, con i suoi territori progressivamente inglobati da insediamenti israeliani. Alcuni studiosi considerano questi eventi come una continuazione della Nakba, la “catastrofe” che vide l’espulsione di centinaia di migliaia di palestinesi nel 1948.
Nelle recenti operazioni, centinaia di soldati israeliani hanno partecipato a raid simultanei nel nord della Cisgiordania, concentrandosi in particolare sul campo profughi di Jenin, da tempo considerato una roccaforte dei militanti, così come nei campi di Tulkarem e Al-Faraa. A Jenin, le forze israeliane hanno circondato gli ospedali per impedire ai combattenti di rifugiarsi al loro interno, e l’esercito ha lanciato almeno due attacchi aerei, una tattica raramente impiegata in Cisgiordania fino a pochi anni fa.
Raid simili, eseguiti quasi quotidianamente negli ultimi anni, hanno causato la morte di centinaia di militanti, compresi comandanti di alto livello che sono stati rapidamente sostituiti, senza che la violenza diminuisse. Gli israeliani si riferiscono a queste operazioni come “tagliare l’erba”, un’azione temporanea ma necessaria che, senza una soluzione politica a lungo termine, implica un ritorno ciclico alla violenza.
Negli ultimi anni, la strategia di apartheid attuata da Israele ha incluso la creazione di nuovi insediamenti, spesso costruiti senza alcuna approvazione ufficiale e illegali secondo il diritto israeliano stesso. Fonti citate dalla BBC indicano che organizzazioni filogovernative sono coinvolte nella rapida crescita di questi avamposti, che vengono successivamente legalizzati retroattivamente nonostante le sanzioni. Sebbene il governo israeliano non fornisca dati affidabili, indagini condotte dalla BBC stimano che attualmente esistano 196 avamposti in Cisgiordania, di cui quasi la metà costruiti dopo il 2019.
La violenza in Cisgiordania è aumentata drasticamente negli ultimi anni, culminando dopo l’attacco di Hamas del 7 ottobre da Gaza, che ha innescato l’attuale conflitto. Secondo il Ministero della Salute palestinese, oltre 650 palestinesi sono stati uccisi dal fuoco israeliano in Cisgiordania da allora, il numero più alto di vittime dall’Intifada dei primi anni 2000.
La situazione in Cisgiordania rimane altamente instabile, con un continuo aumento delle operazioni militari e delle vittime. Le tensioni tra le forze israeliane e i gruppi militanti palestinesi si sono intensificate, alimentando un ciclo di violenza che coinvolge sia militanti che civili. Sullo sfondo, la costruzione di nuovi insediamenti e avamposti israeliani continua a trasformare il territorio, influenzando la realtà quotidiana della popolazione locale e complicando ulteriormente le dinamiche del conflitto.
(Letizia Pili)