Il filo di sangue tra Armenia e Siria: nel ricordo del primo genocidio del ‘900


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24 aprile. Ogni anno, in questa data, la memoria si fa più densa, più rossa. È il giorno in cui il mondo ricorda il genocidio armeno, il primo grande sterminio del Novecento, quello che aprì tragicamente la strada agli orrori a venire.

Era il 1915 quando l’Impero Ottomano, sotto la spinta del nazionalismo dei Giovani Turchi, diede il via alla sistematica deportazione e uccisione di circa un milione e mezzo di armeni. Una tragedia che oggi, a distanza di più di un secolo, continua a pesare come un macigno sulla coscienza del mondo.

Molti degli armeni in fuga da quella carneficina trovarono rifugio nella vicina Siria, in particolare ad Aleppo, che divenne una delle capitali della diaspora. Le stesse strade dove trovarono salvezza – o almeno un nuovo inizio – sono quelle che, un secolo dopo, hanno visto nuovi massacri, nuovi esodi, nuove vittime. È come se un filo invisibile, intriso di sangue, unisse il destino degli armeni a quello dei siriani. Un filo che passa per la violenza, la pulizia etnica, la negazione dei diritti fondamentali.

Ancora oggi, la stessa logica che annientò gli armeni sembra agire in Siria. È la logica dell’oppressione, del disprezzo per la vita umana, dell’uso sistematico del terrore come strumento di potere. È la mano che bombarda, che affama, che imprigiona. Cambiano i nomi, cambiano le bandiere, ma non cambia la natura del male.

Il genocidio armeno non è solo un fatto del passato. È un monito. È il simbolo di cosa succede quando il mondo guarda altrove, quando le vittime non hanno voce, quando la giustizia si fa attendere. E oggi più che mai, mentre la Siria continua a sanguinare nel silenzio generale, ricordare quel genocidio significa anche riconoscere le sue eredità. Significa dire che quella striscia di sangue non si è mai interrotta. E che spetta a noi, oggi, avere il coraggio di tagliarla.

Per gli armeni, per i siriani. Per tutti i popoli senza voce.

 

(Raimondo Schiavone)


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