La Spagna cambia ritmo e riduce l’orario di lavoro da 40 a 37,5 ore


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(Federica Cannas) – C’è un tempo che non si misura in produttività, ma in benessere. È il tempo restituito alle persone. La Spagna ha deciso di imboccare questa strada, dando il via libera alla riduzione dell’orario di lavoro settimanale da 40 a 37 ore e mezza, a parità di salario. Un passo concreto, politico, frutto di un accordo con i sindacati, che potrebbe aprire una nuova stagione per il lavoro in Europa.

Il disegno di legge, parte dell’intesa tra governo e organizzazioni sindacali per il biennio 2025-2026, prevede una prima fase a 38,5 ore nel 2025, per poi scendere a 37,5 ore nel 2026. Nessuna perdita di salario. Una scelta netta. Meno ore, più qualità della vita.

In un continente ancora ipnotizzato dall’efficienza e dalla crescita a ogni costo, la Spagna dimostra che si può ripensare il tempo del lavoro come tempo umano. Che si può mettere in discussione l’idea secondo cui lavorare di più significhi contribuire di più. E che si può farlo senza impoverire lavoratori e lavoratrici, ma anzi rafforzandone i diritti.

A promuovere la riforma è stata Yolanda Díaz, vicepremier e ministra del Lavoro, leader della piattaforma progressista Sumar, con una lunga storia politica legata al Partito Comunista di Spagna. Ma il cuore della questione non è una biografia politica, bensì un’idea: il lavoro non deve dominare la vita. Deve farne parte, in equilibrio.

Il provvedimento interesserà 12,5 milioni di lavoratori del settore privato. Include anche l’obbligo per le aziende di registrare con precisione le ore effettive lavorate, per evitare abusi, e rafforza il diritto alla disconnessione digitale, un tema cruciale in un’epoca di lavoro ibrido e connessione costante.

Quella spagnola non è una misura simbolica, né un esperimento teorico. È un atto politico maturo, nato da un dialogo concreto tra istituzioni e rappresentanze sociali, che porta con sé una visione del lavoro che molti Paesi hanno smarrito. Una visione costruita con pazienza, mediazione e coraggio, da una sinistra che non si limita a custodire il passato, ma sperimenta futuro.

In fondo, non si tratta solo di lavorare meno. Si tratta di redistribuire potere, libertà, tempo. Di rompere con l’ideologia che ci vuole sempre performanti, sempre produttivi. E invece no. Il tempo per sé, per gli affetti, per la socialità, per la politica, è tempo pienamente umano. E dunque, tempo politico.

Nel momento in cui il governo spagnolo avanza con questa riforma, in Italia il dibattito resta timido, spesso archiviato come utopia. Eppure, se in Spagna è stato possibile costruire una misura concreta, articolata, sostenuta dal mondo del lavoro, perché non provarci anche qui? Cosa ci manca davvero?

La Spagna offre una lezione di riformismo coraggioso, determinato, non nostalgico. Una lezione per tutta la sinistra europea. Tornare a mettere al centro i diritti, non quelli da difendere, ma quelli da conquistare, con uno sguardo lungo, rivolto al futuro. Perché il tempo è politico. E decidere come usarlo, quanto darne al lavoro e quanto tenerne per sé, è una battaglia di libertà. E di giustizia sociale.


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