Due voci davanti alla Storia. La dignità di Allende, la vergogna di Netanyahu


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(Federica Cannas) – Il Palazzo della Moneda brucia, ma Salvador Allende non ha paura. La voce che risuona alla radio mentre i caccia dell’aviazione cilena bombardano Santiago è quella di un uomo che non arretra, che sa di stare per morire e sceglie le parole con la precisione e l’amore di chi sta scrivendo l’ultima pagina di un libro destinato al futuro. “La storia è nostra e la fanno i popoli” dice, e in quella frase c’è tutta la sua eredità.

Dall’altra parte del tempo, Gaza arde sotto i bombardamenti dell’esercito israeliano. Ma qui non c’è dignità. Non c’è voce. Non c’è futuro. Solo una sistematica distruzione. Solo un premier, Netanyahu, che ha scelto di riscrivere la Storia con il linguaggio dell’annientamento.
Allende parla al domani. Netanyahu lo cancella.

L’11 settembre 1973, Allende è solo nel Palazzo presidenziale. I telefoni tacciono, le armi dei golpisti fanno tremare i vetri, eppure la sua voce è ferma. In quell’ultimo discorso, trasmesso da Radio Magallanes, non cerca salvezza personale, non chiama alla vendetta, non cerca scorciatoie. Chiude con parole che hanno la forza di una preghiera laica: “ho la certezza che il seme che abbiamo consegnato alla coscienza dignitosa di migliaia e migliaia di cileni non potrà essere definitivamente distrutto.”
La storia ha dato ragione a lui. Quella voce che resiste al fragore delle bombe è diventata un faro etico, una lezione politica, una memoria viva.

A Gaza non c’è spazio per discorsi, non ci sono stazioni radio ribelli, non ci sono parole che possano coprire il rumore assordante delle bombe. C’è solo la voce muta delle vittime. Bambini, donne, civili senza scampo. Nessun rifugio, nessuna tregua. Gaza è stata trasformata da Netanyahu in un laboratorio del terrore: un territorio cancellato, reso inabitabile, ridotto a rovine e polvere.

Non è una guerra, è un castigo collettivo. Un crimine. È genocidio, parola che molti faticano ancora a pronunciare per timore, per ipocrisia, per convenienza.
Il paragone non è forzato. Non c’è bisogno di avere la stessa ideologia di Allende per comprenderne la grandezza. Non serve nemmeno schierarsi su Israele e Palestina per riconoscere che quello che sta accadendo a Gaza è indegno, inaccettabile, criminale. Si tratta di due uomini messi di fronte alla Storia. Uno la onora anche morendo. L’altro la disonora con un governo criminale.

Nel 1973 Allende poteva scegliere di fuggire. Non lo fece. Restò per difendere un’idea. Non il suo potere, non un simbolo vuoto, ma il principio stesso di una democrazia popolare, imperfetta e fragile, ma reale. Netanyahu invece sceglie ogni giorno di restare nel palazzo per demolire un popolo, per spegnere ogni voce, per lasciare solo sangue, detriti, paura.

Per questo ricordare Allende oggi è più che mai necessario. È un gesto politico. È un atto di resistenza. È la consapevolezza che il potere può e deve essere esercitato con dignità, e che il suo opposto, la disumanità del potere, deve essere denunciato con chiarezza.

Gaza è oggi il nostro banco di prova. È lì che la nostra coscienza viene interrogata. Possiamo restare in silenzio mentre un intero popolo viene bombardato, affamato, espulso?
Allende parlava alle generazioni future. E noi siamo quelle generazioni. Siamo il suo pubblico, la sua eredità, la sua speranza.

Tocca a noi scegliere se restare fedeli a quella voce o chiudere gli occhi di fronte all’orrore.
Perché la Storia non ha solo spettatori. Ha giudici. E i giudici, spesso, siamo noi.


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