
(Bruno Scapini) – L’arresto del Capo della Diocesi di Shirak, l’Arcivescovo Mikael Ajapahyan, che fa seguito ad altro nei confronti del Capo della Diocesi di Tavush, l’Arcivescovo Bagrat Galstyan, eseguito appena tre giorni prima, è l’ennesimo episodio di una teoria di attacchi che il Primo Ministro armeno, Nikol Pashinyan, sta portando da qualche tempo avverso la Chiesa Apostolica armena con pretestuose accuse di sovversione dell’ordine costituzionale del Paese.
Già da qualche tempo, infatti, in particolare da quando si è andata affermando una diffusa opposizione verso l’attuale Governo, l’Armenia sta vivendo uno dei momenti più critici della sua esistenza. Ma non tanto a causa di una conflittualità sociale inesistente o di una pretesa crisi economica che investirebbe il Paese, bensì per ragioni di pura conservazione del potere. Un potere finalizzato ad attuare un corso di politica estera più favorevole ai tradizionali nemici di vicinato (leggi Azerbaijan e Turchia), ma mascherandone la compiacenza con un quanto mai illusorio progetto di pacificazione regionale non inclusivo dei reali e più rilevanti interessi nazionali.
E proprio in questa prospettiva, il Governo avrebbe condotto oggi il Paese ad un bivio cruciale: ovvero a dover scegliere se permanere nello storico legame con Mosca, o se invece abiurarlo in favore di uno schieramento pro-occidentale. Un’opzione, quest’ultima, che è stata adottata in via preferenziale proprio da Pashinyan, su sollecitazione delle forze euro-atlantiste inclini a strumentalizzare la sua figura politica nell’ottica di antagonizzare ancora una volta la Russia nello scacchiere caucasico. Ed è in questa prospettiva che l’attuale scontro tra Governo e Chiesa Apostolica troverebbe le sue primarie motivazioni e spiegazioni.
La criticità, infatti, dell’attuale rapporto tra le Autorità e la Chiesa Apostolica andrebbe più propriamente inquadrata nel contesto di quella crescente tensione con i massimi esponenti religiosi di Echmiadzin che l’attuale Governo di Nikol Pashinyan avrebbe provocato a seguito di una sua deriva autocratica sempre più allineata con gli interessi di alcune potenze occidentali intenzionate a destabilizzare il Paese in funzione anti-russa.
Non va dimenticata, infatti, la genesi dell’attuale Governo: Pashinyan, da “prigioniero politico” quale era, dopo i cruenti fatti di piazza del 2008 – cui lo stesso ha attivamente partecipato – è passato al ruolo di un auto-proclamato “Primo Ministro” nel 2018 a seguito di una quanto mai perplessa “transizione di velluto”. Da allora il suo Governo è stato sempre alla ricerca di un consenso che potesse garantirne una legittimazione politica, e ha contato a tal fine sulla disaffezione serpeggiante attraverso alcune frange dell’elettorato che si facevano portatrici di un auspicato cambiamento rispetto al precedente Governo. Poiché l’iniziale sostegno popolare in favore di Nikol è andato nel tempo scemando a fronte di alcune sue scelte politiche adottate in aperto contrasto con le cause storiche nazionali armene, quali la reintegrazione del Nagorno Karabach e il riconoscimento universale del Genocidio del 1915, (elementi entrambi costituenti storicamente l’identità nazionale del popolo armeno), una forte reazione si sarebbe gradualmente consolidata verso la sua figura istituzionale vista non più in linea con gli interessi del Paese, ma anzi con essi in aperto pieno contrasto.
La discutibile sconfitta subita con l’ultima guerra con l’Azerbaijan nel 2020, la totale perdita del Karabagh nel 2023, la inattuabilità del suo progetto di fare dell’Armenia un “crocevia della pace” – attraverso concessioni di varia tipologia in favore di Paesi storicamente “nemici”, ma percepite come “inaccettabili” dall’opinione pubblica del Paese – e l’inasprimento dei rapporti con la Russia – in contro-tendenza con i tradizionali interessi economici. migratori e strategici da sempre mantenuti con Mosca – sono tutti fattori che hanno portato all’emergere di un vasto movimento di resistenza di cui proprio la Chiesa Apostolica di Echmiadzin si è fatta interprete offrendo il pretesto per le scomposte e irreverenti reazioni avute dal Premier, al limite dell’oltraggio, verso la massima Autorità religiosa e spirituale della Nazione, il Catholicos di Tutti gli Armeni.
Per gli aspetti più propriamente geopolitici, che attengono invero alla vera sostanza della attuale crisi attraversata dal Paese, non va parimenti sottaciuto come l’Armenia costituisca oggi col Governo Pashinyan l’elemento sul quale poggia quell’Occidente collettivo votato alla sconfitta strategica della Russia; lo stesso Occidente che ritiene di poter condurre oggi Yerevan verso uno schieramento euro-atlantista non solo inducendo il suo Governo ad abiurare i tradizionali vincoli con Mosca (dall’appartenenza all’Unione Euroasiatica alla CSTO ed altre forme di cooperazione), ma anche accreditando in alternativa un’ipotesi di destabilizzazione del Paese funzionale – congiuntamente ai casi della Moldova e della Georgia – ad un indebolimento del fronte caucasico della Federazione Russa.
Non sarebbe irrealistico, del resto, immaginare in proposito come anche l’Armenia, nelle intenzioni di alcune note leadership occidentali, possa rappresentare al pari dell’Ucraina un’utile opportunità per ingegnerizzare un altro “progetto anti-Russia”. Ma la difficoltà incontrata per una simile conversione del ruolo del Paese (strategicamente ed economicamente più orientato verso Mosca) indurrebbe ora Pashinyan a ricercare altri ulteriori pretesti per attivare uno scontro con le opposizioni all’interno della società armena colpendola proprio in quello che ha più di vitale per mantenere e preservare l’unità storica, spirituale, etica e morale dell’intera Nazione ivi compresa la sua stessa Diaspora.
Prova dell’appoggio di cui peraltro gode l’attuale Governo armeno da parte occidentale per questa sua riprovevole linea di condotta è ancora una volta quel noto doppio standard comportamentale tenuto dalle istituzioni di Bruxelles. Queste, al tempo delle violenze di piazza del 2008, non lesinavano pressioni politiche di ogni tipo pur di ottenere la scarcerazione di Pashinyan ritenendolo “prigioniero politico”. Ma oggi quelle stesse leadership tacciono. Né osano prendere le difese di esponenti religiosi arbitrariamente arrestati con motivazioni tanto speciose nelle finalità, quanto pretestuose e fallaci nei contenuti.
In questa prospettiva, aizzare, dunque, il popolo contro la massima Istituzione religiosa, denigrandola con una narrativa offensiva e oltraggiosa, ma anche cercando di imbavagliarla con veri e propri atti persecutori (accuse di comportamenti osceni e immorali, arresti di esponenti religiosi e civili, proposta di riforma per l’elezione del Catholicos quale suprema guida spirituale), potrebbe ben percepirsi non solo come una violazione del principio oggi universalmente riconosciuto dell’indipendenza della Chiesa dallo Stato (un principio peraltro fatto proprio dalla stessa Costituzione armena e dalla più recente legge di ridefinizione dei rapporti tra le due entità del 2007), ma anche come tragico e al contempo miserevole espediente per raccogliere consensi in vista delle prossime elezioni politiche del 2026, in occasione delle quali molto verosimilmente Nikol Pashinyan si troverà a dover fare i conti con una opposizione sempre più consolidata e determinata ad invertire il corso politico del Paese per restaurare quei valori che proprio il suo Governo ha inteso mettere in discussione in un’ottica distruttiva dell’unità nazionale.