Fact-checking: Trump e le sette guerre fantasma


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Nella sua recente arringa all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, Donald Trump ha rilanciato un’affermazione ambiziosa e carica d’autocelebrazione: «In sette mesi ho messo fine a sette guerre che si dicevano interminabili». Persino l’ONU, sostiene, non avrebbe fatto nulla per sostenerlo o riconoscerne il merito. Inevitabile, conclude il tycoon, ambire al premio Nobel per la Pace.

Ma qual è la concretezza di questo racconto? Abbiamo analizzato una per una le sette “guerre” citate dal presidente statunitense — e ciò che emerge non è affatto un successo netto e incontrovertibile, ma piuttosto un mix di mediazioni parziali, conflitti ancora aperti, controversie di attribuzione e scelte retoriche.

Le sette “guerre” reclamate da Trump

Secondo il discorso davanti all’Assemblea ONU, Trump si sarebbe fatto promotore della fine dei conflitti tra:

  1. Cambogia e Thailandia
  2. Kosovo e Serbia
  3. Congo e Ruanda
  4. Pakistan e India
  5. Israele e Iran
  6. Armenia e Azerbaijan
  7. Egitto ed Etiopia

Esaminiamo una per una queste affermazioni — e come si mantengono alla luce della realtà geopolitica.

1. Egitto – Etiopia: una disputa, non una guerra

Il caso indicato più debole nel raggruppamento è quello del Nilo: Egitto ed Etiopia non sono in conflitto armato. Si tratta piuttosto di una disputa diplomatica e strategica riguardante la Grande Diga della Rinascita etiope sul Nilo Azzurro — circa il 90% delle acque del fiume provengono da questa branca fluviale, cruciale per il Cairo, che considera la diga una «minaccia esistenziale».
Gli Stati Uniti avevano già tentato mediazioni durante il primo mandato di Trump, ma l’Etiopia non aveva accettato. La diga è stata inaugurata il 9 settembre 2025, nonostante la persistente tensione.

In sintesi: la “fine della guerra” qui è un’esagerazione: non c’era guerra, e la disputa resta aperta su terreno politico-diplomatico.

2. Kosovo – Serbia: conflitto congelato, ma non risolt

Nel caso dei Balcani, l’indipendenza del Kosovo (dichiarata unilateralmente nel 2008) resta controversa agli occhi di Belgrado. Non c’è ora uno scontro armato in corso, ma persistono frizioni territoriali e questioni di riconoscimento internazionale.
Nel 2020, Trump (nel suo primo mandato) aveva mediato un accordo di normalizzazione economica tra Pristina e Belgrado. Ma quell’intesa non ha dissolto le tensioni strutturali, e non vi è testimonianza che Trump abbia “interrotto una guerra” nella presente fase.

3. Armenia – Azerbaijan: l’accordo di Washington

Qui c’è un caso più solido di mediazione visibile. Il 9 agosto 2025, in un incontro tenutosi a Washington e sponsorizzato dagli Stati Uniti, rappresentanti di Armenia e Azerbaijan firmarono una bozza di accordo per porre fine alle ostilità nella regione del Nagorno-Karabakh. La NATO l’ha descritta come “significativo passo avanti”; il Cremlino ha definito l’incontro “positivo”.

Tuttavia, si tratta solamente di un’intesa preliminare, che non affronta tutte le questioni politiche e territoriali che hanno alimentato decadi di conflitto — e non è chiaro quanto essa sia destinata a reggere senza altri mediazioni continuative.

4. Repubblica Democratica del Congo – Ruanda: un accordo vulnerabile

Il 27 giugno 2025, nella Casa Bianca, il governo congolese e il governo ruandese firmarono un accordo di pace mediato dagli Stati Uniti. Trump ne fece un simbolo del suo “glorioso trionfo”.

Ma la sostanza è più complessa. L’intesa non include il gruppo armato M23 — che resta attivo e in conflitto con l’esercito congolese. Anzi, negli ultimi mesi sono state segnalate offensive militari e intensificazione degli scontri tra i ribelli e le forze governative.

Pertanto, la “pace raggiunta” appare più fragile che definitiva, e la guerra non è affatto conclusa.

5. Pakistan – India: il principio del cessate il fuoco che divide

A maggio 2025, dopo un attacco nel Kashmir, India e Pakistan si scambiarono missili per alcuni giorni, con circa 70 vittime. Trump ha dichiarato di aver mediato un cessate il fuoco. Il governo pakistano ha ringraziato gli Stati Uniti per aver “facilitato” la tregua; ma l’India ha smentito che un mediatore straniero abbia svolto un ruolo decisivo, affermando di aver negoziato direttamente con Islamabad.

Successivamente, lo stesso Trump ha moderato le sue affermazioni, dicendo di non voler rivendicare interamente il merito, pur continuando a considerarsi parte del processo.

Il quadro è dunque ambiguo: si può parlare di tregua facilitata, ma non di conflitto chiuso per mano esclusiva degli Stati Uniti.

6. Cambogia – Thailandia: tregua sospesa

A luglio 2025, i due Paesi hanno avuto uno scontro militare ai confini, con 42 vittime e circa 300.000 sfollati, legato a dispute territoriali nei pressi di siti storici e sacri. Trump minacciò ritorsioni commerciali se non fosse stato raggiunto un cessate il fuoco a breve termine. Una tregua fu firmata entro fine luglio.

Tuttavia, da allora le accuse reciproche di violazioni dell’accordo sono proseguite, e la pace resta precaria.

7. Israele – Iran: cessate il fuoco, ma niente pace

Secondo la ricostruzione trumpiana, nel giugno 2025 Israele avrebbe attaccato gli impianti nucleari iraniani; gli Stati Uniti si unirono all’operazione, e dopo dodici giorni Trump proclamò un “cessate il fuoco totale” tra i due Paesi.
Ma un cessate il fuoco non equivale a una pace stabile. La leadership iraniana ha già dichiarato che non rinuncerà all’arricchimento dell’uranio. Il conflitto di fondo resta intatto, con equilibri regionali e capacità militari che continuano a nutrire tensioni latenti.

Trumo, tra retorica e realtà

La narrativa di Trump — un impressionante “one-by-one” dei conflitti globali — appare al vaglio della realtà molto meno lineare. L’analisi dei casi mostra una serie di elementi critici:

  • In alcuni casi (Egitto-Etiopia, Kosovo-Serbia) si parla più di dispute o tensioni che non di guerre vere e proprie.
  • In altri (Congo, Cambogia, Pakistan-India) gli accordi raggiunti sono fragili, parziali, o contestati.
  • In un solo caso (Armenia-Azerbaijan) si registra un accordo visibile, ma incompleto e prematuro.
  • In ogni caso, la misura in cui Trump ha agito come protagonista esclusivo è oggetto di dispute e smentite ufficiali.

Organismi di fact checking hanno già smontato diverse affermazioni dell’amministrazione, osservando che la “fine dei conflitti” è spesso più un’espressione propagandistica che una realtà consolidata.

Inoltre, numerosi conflitti globali sono tuttora attivi — in Africa, Medio Oriente, Asia meridionale — secondo monitor internazionali come il Geneva Academy, il CFR Global Conflict Tracker, e il database Uppsala Conflict Data Program.

Il premio Nobel per la Pace: un traguardo improbabile

Trump sembra suggerire che la sua “agenda della pace” giustifichi una candidatura al Nobel. In realtà, la domanda che emerge è: davvero ha creato pace duratura — o semplicemente rivendicato successi parziali con forte valenza simbolica?

Il premio Nobel per la Pace è assegnato per risultati concreti e sostenibili. Le rivendicazioni di “sette guerre fermate in sette mesi”, al netto delle smentite, appaiono troppo audaci e insufficientemente fondate per orientare seriamente la giuria del premio verso una candidatura vincente.


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