(Alessia Lai) – Ironico, dissacrante. Anche nel giorno dell’addio o, sarebbe meglio dire, del momento in cui riporre il “travestimento” nell’armadio. Il subcomandante Marcos, misterioso leader del Ezln, il movimento ribelle zapatista messicano del Chiapas, ha annunciato pochi giorni fa il suo passo indietro: non rappresenterà più il movimento. Non è la rinuncia di un capo. Capo non lo è mai stato né ha voluto esserlo, Marcos. Subcomandante, non comandante. Controfigura di un popolo. Questo è voluto essere. Ora, a 20 anni da una delle più affascinanti ribellioni del secolo scorso, quella nel Chiapas del 1994, l’ologramma della rivolta non serve più. Il corpo che incarnava quella rivolta rappresentandola al mondo ha esaurito la sua funzione: «Ci siamo resi conto che oramai c’era già una generazione che poteva guardarci, ascoltarci e parlarci senza bisogno di guida o leadership, né pretendere obbedienza (…) Marcos, il personaggio, non era più necessario. La nuova tappa della lotta zapatista era pronta». Con queste parole, il 25 maggio, l’uomo col passamontagna la cui identità non è mai stata scoperta, ha annunciato che «colui che è conosciuto come Subcomandante ribelle Marcos non esiste più».
Nel 1994 «un esercito di giganti, di indigeni ribelli, scese in città per scuotere il mondo. Solo qualche giorno dopo, col sangue dei nostri caduti ancora fresco per le strade, ci rendemmo conto che quelli di fuori non ci vedevano. Abituati a guardare gli indigeni dall’alto, non alzavano lo sguardo per guardarci; abituati a vederci umiliati, il loro cuore non comprendeva la nostra degna ribellione. Il loro sguardo si era fermato sull’unico meticcio che videro con un passamontagna, cioè, non vedevano. I nostri capi allora dissero: ‘vedono solo la loro piccolezza, inventiamo qualcuno piccolo come loro, cosicché lo vedano e che attraverso di lui ci vedano’».
Un passamontagna e un fucile, Marcos nasce in quel 1994, una «complessa manovra di distrazione, un trucco di magia terribile e meraviglioso, un gioco malizioso del nostro cuore indigeno; la saggezza indigena sfidava la modernità in uno dei suoi bastioni: i mezzi di comunicazione» ha ricordato il subcomandante. Un ologramma della rivoluzione, un fantasma. Impossibile da catturare, ferire, uccidere. Nell’ultimo messaggio ufficiale prima del congedo, nel suo abituale stile ironico e provocatore, il “fantasma” gioca ancora una volta con la sua stessa esistenza: «Quelli che hanno amato e odiato il SupMarcos adesso devono sapere che hanno amato e odiato un ologramma. I loro amori e i loro odi sono stati inutili, sterili, vuoti. Non ci sarà alcuna casa-museo o targa di metallo dove sono nato e cresciuto. Nessuno vivrà dell’essere stato il Subcomandante Marcos. Non si erediterà il suo nome né il suo incarico. Niente viaggi per tenere conferenze all’estero. Non ci saranno trasferimenti né cure in ospedali di lusso. Non ci saranno vedove né eredi. Nessun funerale, né onoreficenze, né statue, né musei, né premi, niente di quello che fa il sistema per promuovere il culto dell’individuo e sminuire quel che fa il collettivo. Il personaggio è stato creato e adesso noi, i suoi creatori, gli zapatisti e le zapatiste, lo distruggiamo. Chi saprà comprendere questa lezione dei nostri compagni e delle nostre compagne, avrà compreso uno dei fondamenti dello zapatismo».
L’impersonalità della lotta. Questa la lezione di Marcos. Non finisce l’Ezln, non finisce la resistenza: «È nostra convinzione e nostra pratica che per rivelarsi e lottare non sono necessari né leader né capi, né messia né salvatori; per lottare c’è bisogno solo di un po’ di vergogna, una certa dignità e molta organizzazione, il resto o serve al collettivo o non serve». La bellissima «messa in scena» del subcomandante Marcos è finita, ma solo perché ha esaurito la sua funzione catalizzatrice. Marcos è stato la lente che ha concentrato in un punto le forze di una ribellione ignorata, con uno stile beffardo ha usato il “mito” del guerrigliero per accendere i riflettori sul Chapas e senza appiattirsi su un certo “internazionalismo ribelle da scritte per magliette”.
Esilarante e al contempo illuminante la polemica con l’Eta nel 2003 della quale è facile trovare tracce in Rete: modi diversi di intendere la ribellione e propagandarla al mondo. «Noi non prendiamo niente sul serio, nemmeno noi stessi» fu una delle frasi rivolte da Marcos ai baschi, irritati per una proposta zapatista di dialogo sulla loro questione. E, nella stessa lettera, in uno dei suoi famosi P.S. fu ben chiaro: «ALTRO P.S.: Forse è già evidente, ma lo ribadisco: me ne frego anche delle avanguardie rivoluzionarie di tutto il pianeta». Che dire, prendersi troppo sul serio è roba da fanatici. La leggerezza della lotta, la rivolta gioiosa, hanno avuto bisogno di un ologramma col passamontagna. Anche nel suo ultimissimo messaggio non ha rinunciato ai suoi P.S. ben sette. L’ultimo: «Ehi, è molto buio qui, ho bisogno di un po’ di luce». Una risata “rebelde” per il subcomandante.