“I terroristi dell’ISIS non hanno nulla a che fare con l’Islam, perché le prime vittime delle loro azioni sono proprio i musulmani, dai sunniti agli sciiti. Questa non è una guerra di religione, Islam da una parte e le altre confessioni dall’altra, ma una guerra tra chi vuole la morte e l’orrore e chi invece ogni giorno si aggrappa alla vita e vuole vivere in pace con gli altri”. È questo uno dei messaggi lanciati dal II Meeting Internazionale delle politiche del Mediterraneo che il Centro Italo Arabo ha organizzato a Cagliari alla presenza d’importanti esponenti del mondo politico arabo, come Mahdi Dahalala, ex ministro dell’informazione della Siria, molto vicino al presidente Bashar al –Assad, Ali Fayad, deputato libanese e membro della direzione politica del partito sciita libanese e Yomn Elhamaky, economista egiziana che in passato è stata anche parlamentare.
Com’era prevedibile la situazione in Siria e in Iraq e, in particolare, l’avanzata sulla scena mediorientale dei terroristi dell’ISIS hanno monopolizzato l’attenzione della sessione dedicata ai nuovi scenari geopolitici nel Mediterraneo, coordinata da Raimondo Schiavone. Ospiti stranieri e italiani (come il deputato Erasmo Palazzotto e l’ex parlamentare Antonello Cabras) si sono trovati d’accordo su un punto: la politica occidentale con la sua miopia sta creando grandi disastri in Iraq e in Siria e l’emergere del più grande fenomeno terroristico dalla caduta delle Torri Gemelle a oggi è principalmente responsabilità delle scelte compiute dagli Stati Uniti e da alcuni governi europei. Anche l’Italia, come ha ricordato Palazzotto, ha le sue responsabilità a causa di una debolezza che le impedisce di avere un ruolo nel Mediterraneo: “Siamo di fronte a un conflitto non convenzionale, un’assoluta novità che va combattuta con una strategia completamente diversa. L’ISIS non è un fenomeno naturale ma è figlio delle scelte fatte dall’Occidente, di guerre fatte per procura, di strategie sbagliate che continuano a fare disastri e morti in un’area che vive di equilibri fragilissimi”.
Nessun dubbio su chi alimenta il terrorismo dell’ISIS: Turchia, Arabia Saudita e Qatar hanno le mani sporche di sangue, sono loro che hanno finanziato, addestrato e foraggiato i tagliatori di teste che perseguitano qualunque tipo di minoranza etnica o religiosa che incontrano nel loro cammino. I cristiani sono quelli che pagano il prezzo maggiore di queste azioni criminali ma non sono i soli. In Iraq è toccato alla minoranza yazida e oggi sono i curdi siriani a pagare le conseguenze di un’offensiva che non sembra minimamente toccata dai raid aerei della coalizione guidata dagli Stati Uniti.
Per Ali Fayad (Hezbollah) c’è un serio problema di informazione: “C’è una grande differenza tra quanto si sente e quanto invece accade realmente in Medio Oriente. Oggi nella regione c’è un disordine totale, una guerra di tutti contro tutti, sembra di vivere all’interno di una grande guerra civile”. L’Occidente è complice ma anche il mondo arabo (come dimostra il grande conflitto tra Arabia Saudita e Qatar) fa la sua parte. Basta vedere quanto accade in Iraq, Libia e Yemen dove una guerra fratricida sta distruggendo il sistema istituzionale e la convivenza civile. Oggi le vittime di questo caos, secondo Fayad, sono essenzialmente quattro: 1) l’Islam; 2) la Palestina e il suo popolo; 3) il concetto di Stato; 4) la democrazia.
Hezbollah ribadisce la sua volontà di lavorare per l’unità del Medio Oriente, attraverso un accordo tra i paesi arabi islamici in grado di portare stabilità nella regione. L’accordo è necessario, tra l’altro, per trovare un terreno comune contro l’ISIS, un nemico l’umanità. Serve una soluzione politica anche se l’Occidente usa l’ISIS in maniera strumentale per far cadere il regime di Assad. Il partito sciita libanese difende la sua ideologia islamica ma anche l’idea di uno stato laico nel quale i cittadini di tutte le confessioni religiose possa convivere liberamente e possa adoperarsi per lo sviluppo economico, sociale e politico del paese. Per quanto riguarda la Siria, Hezbollah agisce al fianco di Assad “per difendere la stabilità e la sicurezza del paese”. Intervenire al fianco di Damasco significa anche combattere il terrorismo dell’ISIS e difendere l’idea di un Islam tollerante e dialogante con le altre religioni. “Noi siamo in Siria – ha concluso il deputato di Hezbollah – perché i terroristi vogliono colpire il Libano e farlo diventare parte del loro Califfato. L’ISIS vuole eliminare gli sciiti dal nostro paese e noi siamo intervenuti essenzialmente per ragioni umanitarie. Hezbollah è dalla parte del popolo siriano che ha diritto di scegliere il proprio governo senza le ingerenze esterne ”.
Per l’ex ministro dell’informazione siriana, Mahdi Dahlala, l’ISIS è stato creato e sostenuto dai paesi che ora dicono di volerlo combattere. L’Occidente e i paesi del Golfo hanno una grande responsabilità, hanno colpito il paese più laico tra i paesi arabi lasciando le porte aperte al fondamentalismo islamico. La Siria, ricorda l’ex ministro di Assad, aveva persino un ministro cristiano per gli affari islamici e la maggior parte dei membri del governo era espressione delle varie minoranze. La finta rivoluzione ha bloccato il processo di democratizzazione e le riforme che Assad aveva messo in campo. “Nel paese c’era un governo laico e liberale con una forte crescita economica e sociale. La Siria non aveva debiti con l’estero e aveva una costituzione moderna alla cui stesura hanno partecipato tutti i partiti dell’opposizione. Può dire la stessa cosa l’Arabia Saudita o il Qatar?”.
Assad, ricorda Dahlala, si è sempre schierato contro i regimi estremisti ed è incomprensibile che l’Occidente abbia deciso di fare la guerra proprio a uno Stato che non aveva mai minacciato nessuno. Attori regionali come la Turchia e l’Arabia Saudita giocano una partita decisiva per il futuro del Medio Oriente, il cui vero nemico oggi è il fondamentalismo islamico. Per questa ragione l’ex ministro siriano chiede all’Europa di appoggiare Assad nella lotta contro il terrorismo dell’ISIS e di far rispettare le risoluzioni n.2270 e 2271 delle Nazioni Unite. Il riferimento è alla Turchia e al suo ruolo di sostegno al terrorismo. E’ quindi necessario chiudere le frontiere turche e impedire il flusso di armi e di denaro verso i gruppi jihadisti. Il governo di Ankara è inoltre responsabile di finanziare l’ISIS attraverso l’acquisto del petrolio estratto in Iraq e Siria. Dahlala non ha dubbi: bisogna fermare la Turchia altrimenti la lotta al terrorismo sarà vana. Le risoluzioni dell’Onu, secondo Dahlala, vanno in quella direzione e devono essere rispettate da tutte, incominciando da Ankara.
Il pericolo del radicalismo è riecheggiato anche nelle parole di Yomn Elhamaky, economista egiziana che ha ricordato come l’avvento dei Fratelli Musulmani e dell’ex presidente Morsi abbia condotto il suo paese verso una crisi economica gravissima. Anche in questo caso sono emerse le responsabilità dell’Europa che non è riuscita a governare processi di sviluppo e politiche di cooperazione a seguito delle cosiddette primavere arabe. Un’Europa debole anche a causa di una crisi che ha messo a rischio lo stesso futuro del vecchio continente: “L’Europa è un ente grande economicamente e nano politicamente. La politica economica di Berlino e alleati non può proseguire a lungo”.
Secondo Elhamaky il Medio Oriente ha bisogna di un partner forte e autorevole che investa nei paesi in cui i processi di democratizzazione sono ancora fragili, anche se oggi l’Egitto ha imboccato la strada della sicurezza e della stabilità che fino a poco tempo fa sembravano impensabili. Ma le colpe sono anche dei paesi arabi che spesso non colgono le opportunità economiche che arrivano dall’altra sponda del Mediterraneo. Anche per l’economista egiziana l’ISIS è oggi il vero nemico dell’Islam: “L’ideologia dei terroristi non c’entra nulla con la religione. Sono portatori di odio e di violenza e bisogna combattere in tutti i modi il loro estremismo”.