Le elezioni legislative del Bahrein, le prime dopo le contestazioni al regime del 2011, si sono risolte in un nulla di fatto. O quasi. Solo sei candidati sono stati eletti deputati al primo turno mentre per l’assegnazione degli altri 34 seggi di cui è composta l’Assemblea Nazionale, si andrà al ballottaggio il 29 novembre. Il Bahrein, una delle sei sorelle petrolifere del Golfo, forte alleato dell’Arabia saudita e degli Usa, tanto da ospitare la V flotta della Marina a stelle e strisce, ha una larga maggioranza sciita ma è governata da una famiglia reale sunnita.
Annunciato il boicottaggio, l’opposizione aveva stimato una affluenza ai seggi non superiore al 30% ma a chiusura delle urne, dopo un’estensione dell’apertura di due ore, il ministro della giustizia, Khalid bin Ali Al Khalifa, ha annunciato una partecipazione pari al 51,5% degli aventi diritto al voto.In totale c’erano quasi 350.000 elettori iscritti nelle liste, chiamati ad eleggere 39 deputati tra i 266 candidati. Ventidue le donne, ma tra i primi sei eletti non ne figura alcuna. Al monarca assoluto Hamad bin Isa al Khalifa spetta inoltre la nomina di 40 senatori.
Il blocco delle opposizioni, capeggiate dallo schieramento sciita di Al Wefaq, che nelle elezioni precedenti aveva conquistato 18 seggi su 40, hanno boicottato la tornata elettorale in segno di protesta, sostenendo, per voce di Shaikh Ali Salman, segretario di Al Wefaq, che le proposte di cambiamento e dialogo del governo discusse nei mesi precedenti “ignorano le legittime richieste del popolo”.
Le accuse di discriminazione nei confronti della maggioranza sciita ha portato negli anni a scontri e fiammate di violenza di diverse sentita’ fino allo sfociare della rivolta di piazza della Perla nel 2011. Il tentativo di riconciliazione nazionale negli ultimi anni non ha prodotto alcun risultato. Le forze di sicurezza hanno continuato ad arrestare gli attivisti politici e dei diritti umani, poi condannati al carcere, talvolta solo per un tweet, come Nabeel Rajab, presidente del Centro per i diritti umani del Bahrein e direttore del Centro per i diritti umani del Golfo, rea di offeso via Twitter i ministri dell’Interno e della Difesa.
In Bahrein proferire “offese” non meglio definite o mostrare mancanza di rispetto verso il capo di stato, esponenti pubblici, le forze armate, le istituzioni del governo o la bandiera e i simboli della nazione è considerato un reato grave. Amnesty International ha ripetutamente chiesto, sinora invano, alle autorità bahreinite di abrogare gli articoli del codice penale che criminalizzano la libertà d’espressione. Oltre ad Amnesty International, l’Ufficio dell’Alto commissario Onu per i diritti umani e una manciata di parlamentari europei hanno chiesto il rilascio di Rajab mentre degli stati della comunità internazionale, solo Norvegia e Usa hanno preso posizione in suo favore. Il principale alleato del Bahrein, la Gran Bretagna (a parte 12 parlamentari), tace.
In carcere è finita anche Ghada Jamsheer, attivista per i diritti delle donne, sotto processo per aver denunciato via Twitter la corruzione all’interno del Policlinico universitario re Hamad. Nonostante l’articolo 86 del codice penale del Bahrain reciti che “quando molteplici reati siano commessi per uno scopo comune e a distanza ravvicinata, dovranno essere considerati come un reato unico, da punire con la pena più alta prevista”, per Ghada Jamsheer si sono prospettati da subito 10 processi separati. I primi tre si sono conclusi in primo grado tra il 22 e il 29 ottobre, con multe tra i 100 e i 200 euro. L’avvocato ha denunciato di non aver avuto il permesso di accedere agli atti dei vari procedimenti.
L’opposizione moderata, rappresentata da al Wefaq, è finita nella rete del finto “dialogo” e tra gli sciiti più giovani, delusi per la mancanza di qualsiasi risultato al tavolo delle trattative, si è diffusa l’idea che non sia possibile affrontare la via del cambiamento solo con metodi pacifici.
Le elezioni, in questo contesto, si sono trasformate in una”farsa”. E’ evidente che l’atteggiamento del monarca verso il movimento popolare che da anni chiede riforme in grado di garantire l’uguaglianza piena dei cittadini di fronte alla legge e alle istituzioni (un parlamento eletto da tutta la popolazione e non solo dalla minoranza sunnita) non è destinato a cambiare. «Questa non è la battaglia degli sciiti è la lotta di tutti i bahraniti che credono nel diritto, nell’uguaglianza, non dimentichiamo che ci sono non pochi sunniti tra coloro che si battono per il cambiamento», ha spiegato la giornalista e attivista Reem Khalifa.
con fonti Ansa, Reuters, Amnesty, Aki, AP