(Alberto Negri) – Lo Yemen – come Libia, Siria, Iraq – è un’antologia degli errori di grandi e medie potenze che fanno nascere e prosperare il terrorismo jihadista e lasciano disgregare uno stato nel cuore della penisola arabica. Sulle rotte dello Stretto di Bab el Mandeb, di fronte al porto di Aden, passa il 40% del petrolio mediorientale. Quello stesso porto e terminale petrolifero che adesso, con il deposto presidente Mansour Hadi ancora in fuga, sta per cadere in mano ai ribelli sciiti Houthi ed era, fino a poco tempo fa, la base della flotta internazionale che conduceva la lotta alla pirateria somala.
Ma quando nel 2009, tra le montagne scoscese e i deserti pietrosi del Nord, cominciò la rivolta degli Houthi il mondo guardava, come spesso accade, da un’altra parte. Nessuno si chiedeva cosa volessero gli Houthi e il defenestrato generale Petraeus, allora comandante del Centcom, cominciò con i droni la battaglia contro al Qaeda informandoci che qui c’erano più qaedisti che in Afghanistan e nel Waziristan pakistano.
Cinque anni dopo ad al Qaeda nella penisola arabica (Aqpa), che proprio dallo Yemen ha rivendicato l’attentato a Charlie Hebdo nel gennaio scorso, si è aggiunto il Califfato che recluta proseliti e organizza attentati kamikaze spaventosi: 150 morti venerdì scorso in due moschee sciite a Sanaa.
Ma questo è assai più di un conflitto tra sciiti e sunniti e di una guerra per procura tra Riad e Teheran.
Lo Yemen è un fiasco colossale per gli americani e per i loro storici alleati sauditi che ora ammassano truppe al confine per un intervento militare che potrebbe rivelarsi assai più complicato del previsto, tanto è vero che l’Egitto del bellicoso generale Al Sisi si è sfilato e la Lega Araba esita a prendere iniziative. Gli Houti, portabandiera dello sciismo zaydita che fino al 1960 ha dominato per secoli il Paese, nel settembre scorso sono discesi dai loro santuari del Nord conquistando Sanaa con l’appoggio finanziario e militare e dell’Iran, sciogliendo poi nel gennaio scorso un governo e un parlamento ridotti a ectoplasmi come del resto lo stesso presidente Hadi, comandante in capo di un esercito senza truppe.
Un vuoto di potere che gli Houthi hanno riempito alleandosi con le brigate fedeli all’ex presidente Abdullah Saleh che ieri ha mandato i suoi uomini a occupare l’aereoporto di Aden. Una rivincita non da poco per un raìs che dopo trent’anni al potere era stato sbalzato di sella nel 2012 nell’ennesima illusoria primavera araba.
Il fallimento americano è bruciante perché mette in dubbio tutta la strategia del “leading from behind”, cioè guidare da dietro la lotta al terrorismo e indirizzare gli eventi mediorientali. Soltanto sei mesi fa, per giustificare il “non intervento” in Siria, il presidente Barack Obama aveva citato lo Yemen come modello vincente nella lotta al terrorismo. «Noi li uccidiamo dall’alto mentre sosteniamo i partner sul campo di battaglia: una strategia che abbiamo perseguito con successo in Yemen e in Somalia».
Questo successo sbandierato da Obama si è tramutato in un disastro. Non soltanto al Qaeda imperversa in Yemen, con la concorrenza del Califfato, ma gli Houthi, gruppo sciita sostenuto dall’Iran e nemico giurato dell’Arabia Saudita, si è impadronito della più importante base americana mettendo le mani su aiuti militari per 500 milioni di dollari con cui gli Stati Uniti avevano inutilmente foraggiato l’esercito di Sanaa.
La debàcle saudita, per i suoi precedenti, forse è ancora più umiliante. Nel 2009 Riad aveva cominciato a bombardare gli Houthi al Nord ma la guerriglia, affamata e senza grandi mezzi militari, aveva resistito ai raid mentre gli ufficiali sauditi, in tenuta da battaglia, attraversavano ogni giorno il confine per assoldare i militari yemeniti che avrebbero dovuto fare la guerra ai ribelli. Ma questi poveri soldatini combattevano per denaro, certo non per convinzione. Fu un’operazione fallimentare che dovrebbe essere rimasta ben impressa ai sauditi.
Il regno dei Saud dal punto di vista geopolitico sta vivendo uno dei momenti più difficili della sua storia recente: a Nord confina con il Califfato e con le milizie sciite impegnate in Iraq nell’offensiva di terra allo Stato Islamico; a Sud è a stretto contatto con i nemici sciiti Houthi, al Qaeda e ora anche con l’Isil. Ha perso l’alleato Mansour Hadi e sta per abbandonare Aden, terminale petrolifero anche di Riad.
È una sorta di nemesi per i custodi di Mecca e Medina. Lo Yemen è considerato il “giardino di casa”, dove i sauditi hanno sempre influenzato le politiche locali manovrando le fazioni con le loro abbondanti riserve di petrodollari. Ma con l’irruzione degli sciiti il meccanismo si è inceppato, come del resto è già accaduto altre volte quando il regno wahabita ha appoggiato i gruppi radicali più estremisti, ma vicini all’ideologia fondamentalista del regno, che poi sono sfuggiti di mano e hanno destabilizzato il Medio Oriente. Impareranno mai la lezione?
Fonte: Il Sole 24 Ore