(Cristoforo Spinella)– «Se riesci a capire una persona quando la fotografi per strada, ci riesci anche durante una protesta o in guerra. Per me non c’è differenza». La filosofia di Bulent Kilic è schietta e decisa. L’ultimo fotoreporter dell’anno secondo la rivista Time si aggira per le strade della sua Istanbul rifuggendo dalla retorica da star dell’obiettivo. Due giorni fa, il suo scatto dei festeggiamenti a Diyarbakir per lo storico ingresso del partito filo-curdo Hdp nel parlamento di Ankara spiccava sulla prima pagina del New York Times.
Ma per lui, che curdo lo è di origine, queste sono immagini come le altre: «Penso che qualsiasi buon fotogiornalista, quello che non fa questa lavoro solo per la carriera o per i soldi, sappia qual è la giusta distanza da tenere rispetto ai fatti, quando scattare e quando fermarsi – dice in un’intervista ad ANSAmed – Sono regole non scritte». Così per lui è stato anche a Kobane, la città curda del nord della Siria per mesi sotto l’assedio dell’Isis prima della liberazione a fine gennaio. «A Kobane è stato come in altri posti: quando succede qualcosa di importante, senti di doverci andare».
Barba folta e occhi attenti, cresciuto con le foto di Robert Capa e Josef Koudelka e quelle del maestro turco Ara Guler, Kilic è stato quasi travolto dalla popolarità raggiunta in questi mesi. A febbraio è arrivato anche il World Press Photo, ma a 35 anni lui preferisce restare coi piedi ben saldi nella sua Istanbul: «La mia agenzia (France-Presse, ndr) mi ha chiesto se volevo andare altrove, ma per il momento io preferisco rimanere qui». Non è solo una questione di radici: «All’università c’era una camera oscura che mi incuriosiva, è così che ho scoperto la fotografia. A vent’anni ho iniziato a lavorare per alcuni piccoli giornali locali e da allora sono sempre rimasto in Turchia.
Ma per un fotogiornalista professionista non conta dove lavora, ma se capisce le persone e il Paese. Certo la Turchia ha una posizione importante, ci sono tante storie da raccontare e spesso immagini più originali perchè è un Paese che si sta ancora costruendo». Così, dagli scontri di Gezi Park alla tragedia dei 301 minatori morti a Soma nel maggio 2014, le sue foto hanno fatto il giro del mondo. E anche lui ha cominciato a viaggiare: «In Ucraina ho capito di poter fare questo lavoro anche a livello internazionale, lontano dal Medio Oriente».
Quando si comincia a parlare di Istanbul Kilic, che da quando aveva 4 anni vive nel quartiere asiatico di Uskudar, si accende: «Gli ultimi governi l’hanno distrutta. Resta ben poco vicino alle mura storiche, intorno alla torre di Galata ci sono solo negozi, non si vede più il Bosforo perchè è nascosto dai palazzi, a Sultanahmet i monumenti sono assediati. Non rispettano la città e la sua storia ma la celebrano solo per le elezioni». E adesso, che succederà in Turchia? «Non credo che le cose cambieranno rapidamente, ma sono certo che sarà un Paese più democratico e avrà una sua posizione in Europa. Milioni di persone hanno già dimostrato di volerlo con le proteste di Gezi. Sarà un processo lungo, ma non c’è altra via se non il cambiamento».