(Francesco Gori) – L’Unione europea ha stanziato altri 64 milioni di euro di aiuti umanitari per la crisi siriana. I nuovi fondi saranno utilizzati per le esigenze sanitarie e alimentari della popolazione fuggita dalle proprie abitazioni e nei Paesi vicini. Il finanziamento è parte dei 200 milioni impegnati dal bilancio umanitario dell’Unione europea in occasione della conferenza dei donatori che si è tenuta Kuwait a inizio anno.
La terza Conferenza dei donatori aveva stanziato 3,8 miliardi di dollari per gli aiuti alla popolazione e ai profughi. Nel 2013 furono stanziati infatti 1,5 miliardi di dollari e, nel 2014, 2,4 miliardi di dollari. L’iniziativa è stata promossa dell’emiro del Kuwait, Sheikh Sabah Al Ahmed Al Jaber Al Sabah. Il piccolo paese del Golfo ha stanziato 500 milioni di dollari, confermandosi per il terzo anno consecutivo uno dei più generosi sostenitori delle agenzie dell’Onu impegnate nella crisi umanitaria siriana.
L’Unione europea e gli stati membri avevano annunciato un “significativo aumento” degli aiuti umanitari in Siria portandoli a quasi 1,1 miliardi di euro, di cui 500 milioni dal bilancio comunitario, poi ridotti a 200 milioni. La cifra globale ha raddoppiato l’intervento europeo rispetto al 2014. Gli Stati Uniti hanno annunciato un impegno finanziario di 507 milioni di dollari.
OMBRE SUGLI AIUTI UMANITARI – Molti donatori presenti alla Conferenza, come il Kuwait, sono accusati di finanziare i gruppi armati anti governativi, alcuni dei quali di matrice jihadista. Altra accusa rivolta è che il fiume di denaro stanziato dagli Stati non sempre arriva a destinazione, spesso fermandosi nelle mani di funzionari corrotti e di organizzazioni criminali che gestiscono il business dei profughi.
Sotto accusa sono finite anche molte organizzazioni non governative, la cui attività è spesso caratterizzata da scandali, da gestioni poco trasparenti e da una massiccia, sistematica ed organizzata deviazione degli aiuti umanitari internazionali destinati alle popolazioni dei campi e in fuga dalla guerra. Sovente sono le bande armate, i terroristi (come al Qaeda e l’ISIS) e i cosiddetti ribelli a intercettare i convogli umanitari e a bloccare la distribuzione dei beni, successivamente venduti al mercato nero e arma di ricatto per la popolazione e i profughi, costretti a spogliarsi dei pochi averi pur di ricevere in cambio cibo e medicine.
Non c’è solo la Siria ad attirare le attenzioni degli ingordi. Un esempio è la Palestina dove in questi anni è letteralmente sparito un mare di soldi degli aiuti umanitari e per lo sviluppo. Denaro spesso gestito dalla ANP. Intorno alla questione palestinese è sorto un vero e proprio business umanitario da parte delle ONG – o presunte tali – che operano in Cisgiordania e a Gaza. Molti di questi soldi sono finiti ad organizzazioni palestinesi corrotte e poco interessate ad aiutare la popolazione.
Per capire bene la portata del fenomeno, è consigliabile una lettura del saggio di Linda Polman, L’industria della solidarietà, (Bruno Mondadori, 214 pp, 16 euro). Un libro capace di aggiornare il catalogo delle nostre certezze: i buoni non sono più buoni. O almeno, non sempre. Secondo l’autrice, “le organizzazioni umanitarie in zona di guerra saranno pure animate da ottime intenzioni, ma è molto dubbio se il loro impatto sia positivo o se, piuttosto, non finisca paradossalmente per tradursi in un aggravamento e in un allungamento dei conflitti”. La risposta spesso è la seconda.
Altro esempio illuminante è la Bosnia, “dove le ONG erano di fatto manovrate dai generali serbi per i fini di pulizia etnica: semplicemente, consentivano loro di portare aiuti nelle aree in cui desideravano un concentramento di popolazione, e impedivano l’afflusso alle aree che desideravano veder spopolate. In Ruanda, nel 1994, l’ignoranza della situazione politica locale spinse le ONG a scambiare i profughi di Goma per le vittime delle violenze, quando invece si trattava degli hutu che dopo aver massacrato ottocentomila connazionali in tre settimane lasciavano il paese temendo la reazione delle milizie tutsi che si erano formate nel frattempo”.
In Siria, le organizzazioni umanitarie sono spesso manovrate dall’Occidente e agiscono prevalentemente contro il governo di Assad, trasformandosi – non sempre in modo involontario – in uno strumento nelle mani dei gruppi ribelli e delle bande armate jihadiste che decidono, in ultima istanza, chi e come aiutare. Sono le stesse organizzazioni che denunciano sempre e soltanto i “fantomatici barili bomba del regime” e tacciono sistematicamente sui crimini commessi dai terroristi. Gli stessi organismi che gestiscono fiumi di denaro che solo in parte vanno alla popolazione siriana.