(Paola Di Lullo – Cisgordania) – Nabi Saleh è il secondo villaggio, in ordine rigorosamente cronologico, che abbiamo visitato. Anche qui, come a Bil’in, Kuffr Qaddoum ed altri villaggi, si svolgono marce settimanali non violente per protestare contro l’occupazione, il muro e l’apartheid.
Balzato all’onore delle cronache mondiali un paio di settimane fa, a causa dell’aggressione di un soldato israeliano contro un bambino con il braccio ingessato, poi difeso dalla sua famiglia, era già conosciuto, almeno dal 2009, anno in cui sono cominciate le marce, a tutti i pro palestinesi attivi o meno, in Palestina.
Se Nabi Saleh è il villaggio, la famiglia di Bassem e Nariman Tamimi, con i loro figli, in particolare la giovanissima Ahed, sono i suoi leaders.
Il villaggio sorge a 20 chilometri a nord-ovest di Ramallah, e vi risiedono 600 persone, tutte lo stesso cognome, Tamimi, appunto. Sul lato opposto del paese, in collina, si trova l’insediamento di Halamish, costruito nel 1976 su un terreno che appartiene ancora ai residenti di Nabi Saleh. E più in basso, ci sono campi pieni di ulivi e la fonte di Al Qaws, una sorgente naturale di acqua, un tempo destinata all’approvvigionamento idrico del villaggio e “piscina” per i bambini. La fonte e le terre che la circondano sono state prese dai coloni nel 2009. Da allora, ai palestinesi è stato impedito di recarvisi ed hanno solo 20 ore di acqua corrente alla settimana.
Tutto ciò ha scatenato la resistenza popolare nel dicembre 2009, quando si è svolta la prima marcia settimanale per protestare contro la confisca delle terre e il sequestro della loro sorgente d’acqua.
Un accesso al villaggio è sempre bloccato e la strada principale per il villaggio è bloccata il venerdì ed occasionalmente durante la settimana, con un cancello controllato dalle forze militari israeliane.
Gli abitanti del villaggio, a volte uniti ad altri attivisti, ospitano manifestazioni pacifiche dalla moschea in fondo alla strada principale ogni venerdì dopo la preghiera.
Incontriamo Bassem Tamimi in un bar di Ramallah, è impegnato, tra pochi giorni dovrà partire per un tour di un mese negli USA, dove ora si trova da circa una settimana. È un uomo distinto, cortese, somiglia, in foto, ma ancor di più dal vivo, a Paolo Borsellino.
Ci parla di un argomento che gli sta molto a cuore, il Festival di Nabi Saleh, cominciato a Ramla, e continuato nel piccolo villaggio sotto assedio israeliano. Il Festival ha lo scopo di tramandare le usanze, i costumi, la cultura Palestinese nella sua interezza; prevede l’esibizione di musicisti in costume tipico, e di ogni artista che abbia a cuore la conservazione del proprio patrimonio culturale. Le spese sono abbastanza ingenti, ma Bassem è ottimista, ha progetti importanti : dall’anno prossimo, vorrebbe che il Festival fosse a tema, dedicando una giornata ad ogni aspetto della vita Palestinese, ad esempio “la giornata di Gerusalemme”, “la giornata di Al Khalil”, “la giornata del 1948”, e così via. Conta sul supporto, non solo economico, ma soprattutto partecipativo, internazionale. Quest’anno, ci diceva, hanno partecipato circa 1.000 persone, internazionali inclusi. Il Festival è importante anche per i bambini, per quella “voglia di vita normale” che tutti loro hanno, perché è un momento di svago, oltre che di approfondimento culturale.
Quando gli chiediamo come mai a Nabi Saleh si sia scelta la strada della Resistenza non violenta, lui risponde che è questa l’unica strada giusta per un popolo non violento, che crede nei suoi diritti, che è l’unica “arma” che potrà spingere l’opinione pubblica a cambiare idea ed atteggiamento sui Palestinesi, grazie anche all’aumento degli internazionali presenti alle marce. Le persone hanno sempre giustificato la propria simpatia per gli israeliani perché vedono i Palestinesi come dei terroristi, affermo io.
E Bassem risponde che loro, i Palestinesi, non avevano più nulla da perdere, ed era arrivato il momento di fare qualcosa. Perciò hanno cominciato la loro resistenza non violenta. È un’ottima strategia e il mondo comincia a comprendere la loro battaglia, il loro desiderio di veder riconosciuti i loro diritti quali esseri umani, il loro diritto ad una vita libera. Una III Intifada? Bassem dice sì, ma non violenta e globale. Aggiunge “quando VOI vincerete nei vostri paesi, NOI vinceremo qui, in Palestina”. Perché “Israele non è il vero problema, Israele è solo la faccia del capitalismo e dell’imperialismo, contro cui siamo chiamati tutti a combattere”. Bassem sa che è fondamentale riuscire ad arrivare ai mezzi d’informazione, oggi controllati da Israele, affinché la verità possa raggiungere tutti, non soltanto coloro che, in un modo o nell’altro, supportano la causa Palestinese, perché gli israeliani sono sempre stati dipinti dai media solo come vittime ed i palestinesi come terroristi. Inoltre le persone sono molto pigre e spesso non vogliono fare lo sforzo vedere il punto di vista palestinese.
Si è fatto tardi, Bassem ci accompagna al taxi, si congeda, noi ci rechiamo a Nabi Saleh. L’incontro con Nariman, sua moglie, e con Ahed, la sua giovanissima figlia, già premiata in Turchia, a fine 2012, per il suo coraggio durante l’arresto del fratello, con l’ Handala Courage Award, è tra donne.
Ahed, una bellissima ragazza di 14 anni, anela ad una vita normale, tifa per il Barcellona, le piace giocare ai videogames e sogna di fare l’avvocato perché “a Nabi Saleh non ce ne sono”. Ma quando le chiedo se ha paura dei soldati israeliani, scrolla le spalle e la sua cascata di riccioli biondi e risponde “no, ho solo paura che mi portino via i miei cari, e questo mi dà la carica per reagire”.
Nariman è stata ferita alla gamba pochi mesi fa, durante la repressione di una delle manifestazioni, e ne porta ancora i segni. È una donna forte, lo sguardo fermo e l’espressione dolce, che diventa triste solo quando ci racconta del fratello Roshdi, ucciso dinanzi ai suoi occhi, meglio alla sua videocamera e di Mustafa, colpito alla testa da un lacrimogeno, sparato ad altezza d’uomo, mentre tirava pietre contro una jeep militare.
Non c’è rancore in lei, nessuna voglia di vendetta, anzi “non auguro a nessuna madre, moglie, sorella, figlia di un soldato israeliano di soffrire come è successo a me”. L’unica paura è che le portino via qualche altro membro della sua famiglia, è una paura con cui è difficile convivere, con cui fare i conti giorno dopo giorno, ma Nariman è in pace perché “Israele parla solo di pace, la mia pace viene dal profondo del mio cuore, perché sono in pace con me stessa”.
Nariman conferma la mia idea che la società palestinese non sia affatto patriarcale, ma matriarcale. Le donne soffrono moltissimo. Soffrono due volte, perché hanno la loro battaglia personale, visto che partecipano attivamente a tutte le iniziative, come gli uomini, e vengono umiliate e arrestate esattamente come gli uomini. E poi sono costrette a vedere lo stesso trattamento inferto ai propri mariti, padri. E devono essere forti per i propri figli. Su di loro ricade tutto il peso della famiglia, quando padri, mariti, figli, fratelli vengono arrestati o, purtroppo uccisi.
Se Bassem è il leader del Comitato Popolare di resistenza Non Violenta di Nabi Saleh, Nariman è la leader delle donne, perché “dietro un grande uomo c’è sempre una grande donna”.