A Palmira le morti non sono tutte uguali. Il dovere di non essere ipocriti


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(Alessandro Aramu) – Dopo la macabra uccisione di Khaled Asaad, 82 anni, ex capo della direzione generale delle antichità e dei musei di Palmira, i terroristi dello Stato Islamico hanno distrutto il tempio di Baal Shamin, uno dei gioielli dell’antica città romana della Siria. Due notizie che hanno destato l’attenzione della comunità internazionale, dalla quale si è levato un coro unanime di condanna e di sdegno. La stessa comunità internazionale ha però taciuto sulle altre morti di Palmira, ignorando il sangue versato dai civili e dalle centinaia di soldati siriani che hanno combattutto per difendere il patrimonio Unesco dell’umanità dalla furia criminale dei jihadisti.

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Nello scorso luglio, l’Isis ha diffuso un video che mostrava un’esecuzione di massa di 25 soldati siriani, uccisi da ragazzini, nelle rovine dell’anfiteatro di Palmira (foto in apertura). Secondo quanto si descriveva nel filmato, l’esecuzione sarebbe avvenuta poco dopo la conquista della città, il 21 maggio. I soldati siriani furono uccisi a colpi d’arma da fuoco davanti ad una bandiera dello Stato Islamico. Nel video, le vittime apparivano in uniforme militare di colore verde e marrone. A ucciderli sarebbero stati degli adolescenti, ma anche dei bambini, vestiti con tute mimetiche e con il capo coperto da bandana marroni. Un rituale dell’orrore in cui i carnefici erano essi stessi vittime. Come gli spettatori, dato che ad assistere all’esecuzione c’era un gruppo di persone, tra le quali molti bambini, sedute sui gradini dell’anfiteatro romano.

Di fronte a tutto questo, la comunità internazionale ha preferito tacere. Esattamente come il circuito mediatico internazionale. L’informazione italiana, come spesso capita, si è appiattita sulla linea del silenzio più totale. Poi, d’incanto, con la morte di Khaled Asaad –  decapitato davanti a un pubblico che ha assistito all’esecuzione e poi appeso a una colonna – si è ricordata che a Palmira c’erano ancora i mostri dello Stato Islamico, quei mostri che anche la distrazione dell’opinione pubblica ha contribuito a generare.

Quando si parla di Palmira tutti, ma proprio tutti, lo fanno in maniera asettica, decontestualizzando ciò che sta accadendo in quella parte della Siria. E’ una strategia chiara, che punta ancora una volta a disinformare. La verità, l’unica e inoppugnabile, è che la riconquista della «sposa del deserto» è affidata esclusivamente all’esercito di Damasco e ai suoi alleati. Che piaccia o meno, il sangue versato per salvare l’antica città romana di Palmira è tutto in quella bandiera che la comunità internazionale ha ripiegato dopo aver chiuso le ambasciate di una nazione che mai aveva minacciato la sicurezza di altri Stati. Lo ha fatto sulla base di false informazioni, di false stragi e armando quelli che ben presto hanno ingrossato le fila dell’ISIS, poi divenuto Stato Islamico.

A Palmira, è dovere giornalistico raccontarlo, solo il cosidetto «regime di Assad» combatte contro i terroristi, come nel resto del paese. Non c’è traccia della fantomatica coalizione guidata dagli Stati Uniti e dall’Arabia Saudita, i cui fallimentari risultati sono sotto gli occhi di tutti. Su quelle operazioni militari c’è un imbarazzante silenzio: non si sa nulla sui raid giornalieri compiuti, sugli obiettivi raggiunti, sul numero dei terroristi (e dei civili) uccisi e feriti. Non è mai capitato nella storia recente che un’azione militare fosse circondata da così tanti misteri. E silenzi. E’ anche l’ennesima sconfitta di Barack Obama, entrato alla Casa Bianca con l’ambizione di essere il portabandiera di una “politica trasparente”, ne uscirà alla fine con il marchio del presidente delle incompiute, degli slogan e dei misteri (come l’uccisione del capo di al Qaeda, Osama bin Laden).

Detto ciò, appare irritante, anche se comprensibile, la dichiarazione di condanna e sdegno dell’Unesco, che a proposito della distruzione del tempio di Baal Shamin a Palmira ha parlato di un «crimine di guerra» e di «una perdita considerevole per il popolo siriano e l’umanità a causa del vandalismo estremista». Ancora, scrive  il direttore generale dell’Unesco Irina Bokova: «La distruzione sistematica dei simboli che incarnano la diversità culturale della Siria rivela le vere intenzioni di tali attacchi che privano il popolo siriano del suo sapere, della sua identità e della sua storia».

La Bokova, infine, sollecita «la comunità internazionale a fare prova di unità di fronte al protrarsi di questa pulizia culturale, nella convinzione che malgrado gli ostacoli e il fanatismo, la creatività umana prevarrà». Una posizione a cui si sono accodati anche il governo italiano e francese, attraverso i rispettivi ministri degli Esteri.

Sono parole di circostanza che non produrranno alcun significativo cambio di strategia della comunità internazionale in Siria. Quella strategia ha alimentato per anni una finta rivoluzione, creando contestualmente le condizioni per armare i gruppi più radicali, fino all’affermarsi di al Qaeda e, in seguito, dello Stato Islamico. Di rivoluzionario e genuino c’era ben poco, subito soppiantato dalla violenza alimentata dall’esterno a suon di armi e dollari. Anche così si conquista il Paradiso, senza vergini e a buon mercato.

La guerra in Siria è una delle vicende più semplici da raccontare. Purtroppo oggi è la più complicata da risolvere. Palmira, il suo sito archeologico, l’archeologo decapitato e tutto il resto sono una goccia di sangue nell’oceano sparso in questi anni. C’è un sangue che merita di essere ricordato (e che piace tanto alla stampa e ai governi) e uno che invece viene coperto e nascosto. Quel sangue è quello dei siriani che ogni giorno – indossando la divisa militare di uno Stato sovrano, libero e indipendente – combattono contro un mostro che l’Occidente con una mano bastona e con l’altra accarezza. Tutto il resto è propaganda a buon mercato.

 

Twitter@AleAramu

 

Alessandro Aramu (1970). Giornalista professionista. Laureato in giurisprudenza è direttore della Rivista di geopolitica Spondasud. Autore di reportage sulla rivoluzione zapatista in Chiapas (Messico) e sul movimento Hezbollah in Libano, ha curato il saggio Lebanon. Reportage nel cuore della resistenza libanese (Arkadia, 2012). È coautore dei volumi Syria. Quello che i media non dicono (Arkadia 2013),Middle East. Le politiche del Mediterraneo sullo sfondo della guerra in Siria (Arkadia Editore 2014). E’ autore e curatore del volume Il genocidio armeno: 100 anni di silenzio – Lo straordinario racconto degli ultimi sopravvissuti (2015), con Gian Micalessin e Anna Mazzone. E’ responsabile delle relazioni internazionali della Federazione Assadakah Italia  – Centro Italo Arabo  e Presidente del Coordinamento nazionale per la pace in Siria.

 

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