Al Jolani, il camaleonte del jihadismo siriano


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(Claudio Domenici) – Abu Mohammad al-Jolani incarna una delle figure più ambigue, spietate e pericolosamente sottovalutate del conflitto siriano. Leader di Hay’at Tahrir al-Sham, ex ramo siriano di al-Qaeda, Jolani è l’epitome del trasformismo ideologico piegato a fini di potere: un jihadista che ha imparato a mimetizzarsi, a ripulire l’immagine pubblica, a indossare l’abito del politico moderato mentre consolida un regime autoritario e teocratico fondato sulla paura.

Dietro i completi occidentali indossati nelle interviste e le parole calibrate per rassicurare la stampa internazionale, resta un uomo che ha costruito la propria carriera sulla brutalità. Ex membro di al-Qaeda in Iraq, vicino a figure come Abu Musab al-Zarqawi, Jolani ha diretto milizie responsabili di esecuzioni sommarie, torture, imposizione della legge islamica in chiave salafita-jihadista e repressione brutale di ogni dissenso, compreso quello di altri gruppi ribelli. Il suo gruppo, HTS, ha soffocato la libertà a Idlib con metodi non dissimili da quelli del regime di Assad: intimidazioni, arresti arbitrari, tribunali speciali e censura.

Dopo aver abbandonato la sigla di Jabhat al-Nusra e rinnegato formalmente i legami con al-Qaeda nel 2016, Jolani ha orchestrato una sofisticata operazione di rebranding. Il suo obiettivo: presentarsi come l’uomo forte capace di garantire l’ordine in un territorio martoriato, conquistando una parvenza di legittimità nei confronti della comunità internazionale. Ma dietro la facciata, il metodo resta lo stesso: il potere si conquista e si conserva con le armi, con la propaganda, con la paura.

Le sue apparizioni in giacca e cravatta, le interviste con giornalisti occidentali come Martin Smith per PBS Frontline, sono parte di una strategia studiata a tavolino: mostrarsi come leader pragmatico, anti-ISIS, interlocutore possibile. Ma la realtà è che la sua organizzazione continua a governare con logiche settarie e militarizzate, esercitando un controllo capillare sulla società civile, sulle ONG, sull’istruzione e sulla stampa. Chi dissente, scompare.

Laddove è al potere, non c’è democrazia, non c’è pluralismo, non c’è sicurezza per i civili non allineati al suo pensiero. I tribunali religiosi continuano a emettere sentenze senza diritto alla difesa. Le donne sono marginalizzate dalla vita pubblica. Gli attivisti civili, i giornalisti indipendenti e gli operatori umanitari operano sotto costante minaccia.

Il suo vero crimine, però, è quello di aver manipolato e strumentalizzato la rivoluzione siriana. La tanto invocata libertà e dignità contro Assad è stata trascinata nel fango dell’estremismo. Jolani ha capitalizzato il vuoto lasciato dal caos, ha occupato il posto dei rivoluzionari moderati con la forza e ha distorto la causa di un popolo per trasformarla in dominio personale. Ha trasformato Idlib in un laboratorio di autoritarismo islamista mascherato da alternativa. Oggi si presenta come il garante della stabilità, ma governa con la stessa logica delle milizie: il silenzio o la punizione.

E mentre le cancellerie occidentali valutano se e come dialogare con lui per “evitare il peggio”, dimenticano che il peggio è già in atto. Non c’è differenza sostanziale tra chi reprime nel nome di Assad e chi lo fa nel nome della sharia: in entrambi i casi, a pagare sono i civili.

Al Jolani non è un riformista. Non è un ponte verso la democrazia. È un signore della guerra che ha capito come manipolare la narrazione. Ma nessun lifting mediatico potrà cancellare anni di sangue, repressione e dominio jihadista. La storia non lo assolverà. E il popolo siriano, stremato da dieci anni di conflitto, non dovrebbe essere costretto a scegliere tra la tirannia e il terrore.


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