ANALISI/ La guerra dei dazi di Donald Trump (Parte 1)


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1. Introduzione: il ritorno del protezionismo

Nel marzo del 2018, l’amministrazione Trump diede ufficialmente avvio a quella che sarebbe passata alla storia come la più rilevante guerra commerciale degli ultimi decenni, imponendo dazi sull’acciaio e sull’alluminio importati da numerosi paesi, inclusi alcuni storici alleati degli Stati Uniti. In un mondo sempre più interconnesso e interdipendente, la decisione di alzare barriere tariffarie apparve come una netta inversione di rotta rispetto al libero scambio promosso sin dagli anni ’90 da istituzioni come il WTO.

Il ritorno del protezionismo, salutato come un’arma per difendere i lavoratori americani e riequilibrare la bilancia commerciale, si è rivelato però un processo molto più complesso di quanto annunciato nei comizi elettorali. Secondo Paul Krugman, premio Nobel per l’Economia, “Trump ha usato l’economia come un’arma geopolitica, ma senza una strategia chiara né una comprensione profonda delle interdipendenze globali”. Al tempo stesso, l’economista turco Dani Rodrik, noto per le sue critiche alla globalizzazione eccessiva, ha osservato come “la reazione americana abbia posto finalmente in discussione i dogmi del libero scambio, aprendo uno spazio per un dibattito sul ruolo dello Stato nell’economia”.

Questo articolo intende ripercorrere, con l’ausilio di fonti autorevoli e voci internazionali, le tappe salienti della guerra commerciale condotta da Donald Trump, i suoi effetti diretti e indiretti e le implicazioni di lungo periodo per l’economia globale e l’ordine geopolitico.

2. Le origini della guerra dei dazi

Per comprendere la genesi della guerra commerciale scatenata da Donald Trump è necessario risalire non solo alla sua campagna elettorale del 2016, ma anche a una serie di dinamiche economiche e politiche maturate nei decenni precedenti. L’elemento centrale, attorno al quale ruotano le scelte protezionistiche di Trump, è la percezione che la globalizzazione – così come disegnata dagli accordi multilaterali del secondo dopoguerra – abbia progressivamente eroso la capacità produttiva degli Stati Uniti, in particolare in settori tradizionali come l’acciaio, l’automotive e l’elettronica.

Durante la corsa alla Casa Bianca, Trump fece del messaggio “America First” il fulcro del suo programma economico. La promessa era semplice quanto potente: riportare negli Stati Uniti le fabbriche del Midwest, proteggere i lavoratori americani dalla concorrenza cinese e rinegoziare gli accordi commerciali multilaterali, accusati di favorire partner sleali. In particolare, la Cina veniva descritta come un “predatore economico” che sottraeva occupazione e tecnologia agli Stati Uniti, manipolando la propria valuta e imponendo condizioni sfavorevoli alle imprese straniere operanti nel paese.

Ma le radici più profonde affondano in un malessere economico e sociale diffuso. Come spiega l’economista Robert Reich, ex Segretario al Lavoro sotto Bill Clinton, “le diseguaglianze crescenti, la delocalizzazione delle industrie e l’incapacità della politica di offrire strumenti di adattamento al cambiamento hanno creato il terreno fertile per una reazione protezionistica”.

Anche l’economista Branko Milanović, esperto di disuguaglianze globali, ha evidenziato nei suoi studi (in particolare nel celebre “elephant graph”) come i lavoratori a medio reddito dei paesi occidentali – la cosiddetta “classe operaia globale” – abbiano beneficiato poco della globalizzazione rispetto alle élite economiche e ai ceti medi emergenti dei paesi in via di sviluppo.

In questo contesto, la guerra dei dazi non fu solo una misura economica, ma un atto eminentemente politico, capace di parlare alle emozioni e alle frustrazioni di una parte consistente dell’elettorato statunitense. E se da un lato le istituzioni internazionali come il WTO hanno espresso preoccupazione per la tenuta del sistema multilaterale, dall’altro molti analisti hanno riconosciuto come la mossa di Trump abbia messo in evidenza le falle di un ordine economico globale che, pur generando crescita, ha distribuito i benefici in modo profondamente diseguale.

3. Focus sulla Cina: concorrenza sleale o sfida egemonica?

Se è vero che la guerra commerciale lanciata da Trump ha colpito diversi paesi, dalla Germania al Canada, è altrettanto evidente che il vero bersaglio delle politiche tariffarie americane è sempre stata la Cina. Non si tratta semplicemente di una disputa commerciale: il confronto si inserisce in un contesto molto più ampio, segnato da tensioni tecnologiche, strategiche e ideologiche. Quella tra Stati Uniti e Cina è, secondo molti analisti, la manifestazione contemporanea di una Thucydides Trap, la trappola del conflitto tra potenza dominante e potenza emergente, come descritto dal politologo Graham Allison.

Dal punto di vista dell’amministrazione Trump, la Cina era colpevole non solo di mantenere un surplus commerciale strutturale con gli Stati Uniti – nel 2018 pari a oltre 419 miliardi di dollari, secondo l’U.S. Census Bureau – ma anche di pratiche ritenute sleali: sussidi statali massicci alle imprese, trasferimenti forzati di tecnologia, cyber-spionaggio industriale e ostacoli all’accesso delle imprese estere al mercato cinese. Il rapporto del 2018 dell’Ufficio del Rappresentante per il Commercio degli Stati Uniti (USTR) denunciava esplicitamente la politica industriale cinese, e in particolare il piano “Made in China 2025”, come una minaccia sistemica alla competitività americana nel medio-lungo periodo.

Dal canto suo, Pechino ha sempre respinto le accuse, accusando Washington di praticare un “unilateralismo aggressivo” e di voler frenare la propria legittima ascesa. Il Ministero del Commercio cinese ha definito le tariffe americane una violazione dei principi del WTO, e ha reagito con contromisure equivalenti, colpendo prodotti agricoli, auto, e altri beni simbolici della produzione statunitense. La ritorsione cinese è stata calibrata non solo sul piano economico, ma anche politico: molti dei dazi cinesi hanno colpito stati americani chiave, come l’Iowa o il Wisconsin, dove la base elettorale di Trump era più forte.

Ma la guerra commerciale ha aperto anche un nuovo fronte: quello tecnologico. Il caso Huawei, bandita dal mercato americano e da quello di diversi alleati occidentali, ha evidenziato come la sfida sia ormai anche una corsa alla supremazia digitale. La tecnologia 5G, l’intelligenza artificiale e la produzione di semiconduttori sono diventati i nuovi terreni dello scontro. “Il vero confronto – osserva l’economista Barry Eichengreen – non è sulle magliette o sull’acciaio, ma su chi scriverà gli standard tecnologici del XXI secolo”.

In questo scenario, l’approccio di Trump ha avuto il merito – secondo osservatori come Federico Rampini – di infrangere l’illusione che la Cina, una volta integrata nei meccanismi del capitalismo globale, si sarebbe automaticamente democratizzata. Al contrario, Pechino ha consolidato un modello di capitalismo autoritario e ha continuato ad accrescere la propria influenza, anche grazie a progetti come la Belt and Road Initiative. Per questo, al di là degli eccessi retorici e della mancanza di una strategia coerente, il confronto innescato da Trump ha aperto un dibattito ormai irreversibile sulla relazione con la Cina.

4. Le principali misure adottate: cronologia e numeri

La guerra commerciale tra Stati Uniti e Cina – e, in misura minore, tra Stati Uniti e altri partner storici – non si è configurata come un unico provvedimento, ma come un’escalation progressiva di atti unilaterali e contromisure. Le decisioni dell’amministrazione Trump hanno seguito un approccio a “strappi successivi”, in parte negoziati e in parte annunciati via social media, spesso alimentando incertezza nei mercati finanziari e tensioni diplomatiche.

Fase uno: dazi su acciaio e alluminio (marzo 2018)

Il 1° marzo 2018, Trump annunciò l’imposizione di dazi del 25% sull’acciaio e del 10% sull’alluminio, con l’argomentazione di proteggere l’industria nazionale e garantire la “sicurezza nazionale”. I paesi colpiti non furono solo la Cina, ma anche l’Unione Europea, il Canada, il Messico e la Corea del Sud. L’impatto immediato fu una serie di ritorsioni: l’UE colpì merci simboliche come le motociclette Harley-Davidson, il bourbon e i jeans Levi’s.

Fase due: dazi mirati alla Cina (luglio 2018 – agosto 2019)

Il confronto si concentrò poi sulla Cina, con una serie di dazi introdotti in diverse tranche. Secondo l’USTR, a fine 2019 circa 360 miliardi di dollari di beni cinesi erano soggetti a tariffe aggiuntive, con aliquote tra il 10% e il 25%. La Cina rispose imponendo dazi su oltre 110 miliardi di dollari di beni americani, colpendo in particolare soia, carne, automobili e altri prodotti legati agli stati agricoli.

Fase tre: lo stallo negoziale e i mercati in tensione (2019)

Durante tutto il 2019, si alternarono momenti di dialogo e rottura. Le borse reagivano con forti oscillazioni a ogni tweet del presidente o a ogni nuova dichiarazione cinese. L’indice S&P 500, secondo un’analisi del Peterson Institute for International Economics (PIIE), ha avuto almeno cinque fasi di volatilità anomala legate direttamente agli annunci tariffari. Allo stesso tempo, le aziende americane iniziarono a modificare le catene di fornitura, spostando parte della produzione verso paesi come Vietnam, Malesia e Messico.

Fase quattro: accordo di “Fase Uno” (gennaio 2020)

Il 15 gennaio 2020, Stati Uniti e Cina firmarono un accordo preliminare (“Phase One”), che non mise fine al conflitto ma congelò l’escalation. In cambio di una riduzione parziale dei dazi, la Cina si impegnava ad acquistare 200 miliardi di dollari in più di beni e servizi statunitensi nel biennio 2020-2021 (rispetto ai livelli del 2017), con particolare attenzione ad energia, manifattura e agricoltura.

Secondo l’analisi del U.S. Trade Representative Office, però, nel 2021 la Cina ha raggiunto solo il 57% di tali obiettivi, complici la pandemia, la crisi logistica globale e un calcolo eccessivamente ottimistico dei volumi previsti.

Costi economici: numeri chiave

  • Costo per i consumatori statunitensi: secondo il National Bureau of Economic Research (NBER), i dazi hanno portato a un aumento dei prezzi pari a circa $57 miliardi l’anno, a carico dei consumatori e delle imprese americane.

  • Impatto sulla crescita globale: il Fondo Monetario Internazionale ha stimato che le tensioni commerciali tra USA e Cina abbiano causato una riduzione dello 0,8% nel PIL globale nel biennio 2018-2019.

  • Settori più colpiti: automotive, elettronica, agricoltura e manifattura. Particolarmente significativa la crisi della soia americana, con un crollo dell’export verso la Cina superiore al 50% nel 2019.

 

(continua. 1 )


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