ANALISI/ La guerra dei dazi di Donald Trump (Parte 2)


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5. Effetti sull’economia statunitense: industria, consumatori, occupazione

Le promesse dell’amministrazione Trump erano chiare: i dazi avrebbero riportato il lavoro manifatturiero in patria, rilanciato settori strategici come l’acciaio e protetto le imprese americane dalla concorrenza sleale. Tuttavia, a oltre cinque anni dall’inizio della guerra commerciale, i dati raccontano una realtà più sfumata, spesso contraddittoria.

Industria e manifattura: tra speranze e delusioni

Nel breve periodo, alcuni settori industriali – in particolare la siderurgia – hanno beneficiato dell’aumento dei dazi. Le tariffe su acciaio e alluminio hanno infatti ridotto la concorrenza estera, e alcune acciaierie statunitensi hanno annunciato nuove assunzioni o la riapertura di stabilimenti. Tuttavia, questi effetti si sono rivelati temporanei. Uno studio del Brookings Institution ha evidenziato come, a partire dal 2019, molte delle imprese che avevano ricevuto benefici iniziali abbiano cominciato a scontare l’aumento dei costi dei materiali importati, con una conseguente riduzione dei margini e degli investimenti.

La produzione manifatturiera complessiva, secondo dati della Federal Reserve, ha mostrato una crescita modesta nel 2018, seguita da un calo nel 2019, nonostante un’economia in espansione. Questo paradosso è stato attribuito proprio all’incertezza generata dalla guerra commerciale e all’aumento dei costi lungo la catena di approvvigionamento globale.

Consumatori americani: i veri pagatori dei dazi

Contrariamente alla narrativa iniziale – secondo cui i dazi sarebbero stati “pagati dalla Cina” – diversi studi indipendenti hanno dimostrato che a sostenere il peso delle tariffe sono stati per lo più consumatori e imprese statunitensi. Il Congressional Budget Office ha stimato che le politiche tariffarie abbiano inciso in media per circa 830 dollari all’anno per famiglia americana.

Un’analisi del New York Fed (Amiti, Redding, Weinstein) ha evidenziato come l’aumento dei prezzi di beni importati abbia portato a una contrazione del potere d’acquisto, senza un corrispondente aumento dell’offerta nazionale. L’effetto netto è stato un rallentamento dei consumi – in particolare per prodotti elettronici, elettrodomestici e auto – e un aumento del costo della vita per le fasce più deboli della popolazione.

Occupazione: nessun boom industriale

Uno dei cavalli di battaglia del protezionismo trumpiano era la promessa di riportare in patria milioni di posti di lavoro industriali. Eppure, secondo il Bureau of Labor Statistics, il settore manifatturiero ha guadagnato circa 500.000 posti tra il 2016 e il 2019, una crescita inferiore rispetto ai trend degli anni precedenti. Inoltre, molti di questi nuovi posti sono stati creati in settori già in ripresa grazie alla congiuntura favorevole e non come effetto diretto dei dazi.

Secondo uno studio della National Foundation for American Policy, per ogni posto creato grazie ai dazi su acciaio e alluminio, si sono persi circa 16 posti in altri settori, colpiti dall’aumento dei costi o dalle ritorsioni cinesi. Particolarmente penalizzato è stato il settore agricolo: la soia americana, colpita da controdazi cinesi, ha subito un crollo delle esportazioni, costringendo l’amministrazione a varare sussidi pubblici per 28 miliardi di dollari in aiuti ai contadini.

Effetti indiretti: investimenti e clima di fiducia

La guerra commerciale ha anche avuto un impatto negativo sul clima generale degli investimenti. La crescente incertezza normativa e il rischio di escalation hanno indotto molte aziende a posticipare o ridurre i piani di investimento, soprattutto nei settori più esposti all’export. Secondo l’OECD, gli investimenti privati negli Stati Uniti sono rallentati nel biennio 2018-2019, proprio mentre la politica monetaria e fiscale avrebbe dovuto incentivare l’opposto.

In sintesi, sebbene le misure di Trump abbiano avuto un certo effetto simbolico – e in parte politico – sulla percezione della leadership economica, gli impatti economici reali appaiono modesti nei risultati e significativi nei costi.

6. Le ripercussioni globali: catene del valore, mercati emergenti e instabilità

La guerra commerciale scatenata dall’amministrazione Trump non ha avuto effetti solo sull’economia statunitense e su quella cinese: le conseguenze si sono propagate lungo tutto il sistema economico globale, coinvolgendo paesi terzi, ristrutturando le catene del valore e alimentando un clima di incertezza che ha minato la fiducia in un sistema multilaterale già sotto pressione.

Catene del valore globali: la fine di un’epoca?

Uno degli impatti più immediati e significativi è stato il colpo inferto alle catene di approvvigionamento globali (global value chains). Per decenni, il commercio internazionale si era sviluppato su una logica di iperspecializzazione, in cui diverse fasi della produzione erano distribuite tra paesi differenti. La guerra dei dazi ha interrotto questa logica, rendendo più costoso e rischioso affidarsi a fornitori esteri.

Secondo uno studio della World Bank del 2020, la frammentazione del commercio mondiale ha subito una battuta d’arresto proprio nel periodo della guerra commerciale, invertendo un trend pluridecennale. Aziende multinazionali hanno iniziato a spostare parti delle loro filiere dalla Cina verso altri paesi del Sud-est asiatico – come il Vietnam, l’India, la Thailandia – o verso il Messico, in una logica di nearshoring.

Tuttavia, questo processo di rilocalizzazione si è rivelato costoso e complesso. “La guerra commerciale ha accelerato il disaccoppiamento tra USA e Cina – scrive l’economista Chad Bown del Peterson Institute – ma ha anche mostrato quanto le economie siano ormai interdipendenti e quanto sia difficile tornare a modelli produttivi nazionali”.

Effetti sui mercati emergenti

Mentre alcuni paesi – come il Vietnam o il Bangladesh – hanno beneficiato del riorientamento degli scambi, altri hanno subito danni collaterali. Le economie fortemente dipendenti dall’export – come Corea del Sud, Taiwan, Germania – hanno risentito della contrazione del commercio globale. Il Fondo Monetario Internazionale ha stimato che nel biennio 2018-2019, il volume degli scambi internazionali sia cresciuto meno dell’1%, un livello nettamente inferiore alla media storica.

Nei paesi africani e in America Latina, la guerra commerciale ha avuto effetti indiretti attraverso il calo della domanda cinese di materie prime e la maggiore volatilità valutaria. Inoltre, i timori di una guerra valutaria globale, innescata dalla risposta cinese con la svalutazione dello yuan, hanno reso più costoso il debito estero per molti paesi in via di sviluppo.

Un colpo al multilateralismo

Dal punto di vista istituzionale, la guerra dei dazi ha rappresentato una sfida aperta all’architettura del commercio globale. Gli Stati Uniti, che avevano sostenuto la creazione del WTO e delle sue regole vincolanti, hanno iniziato a ignorare sistematicamente gli strumenti di composizione delle controversie dell’organizzazione, bloccando persino la nomina dei giudici dell’organo d’appello.

Molti analisti hanno visto in questa strategia un tentativo deliberato di smantellare il sistema multilaterale a favore di accordi bilaterali e relazioni di forza. “Trump ha scelto di negoziare da solo, uno a uno, anziché attraverso le istituzioni multilaterali – osserva Pascal Lamy, ex direttore del WTO – trasformando il commercio in una lotta tra potenze e minando il principio dell’equilibrio tra grandi e piccoli paesi”.

Anche l’Unione Europea ha subito l’effetto domino della guerra commerciale, trovandosi in una posizione scomoda tra due giganti. In più occasioni, Bruxelles ha espresso preoccupazione per la tenuta dell’ordine economico internazionale, cercando di ritagliarsi un ruolo autonomo ma senza riuscire a sostituire il vuoto lasciato dal disimpegno statunitense.

7. Europa spettatrice o protagonista? Le risposte di Bruxelles

Nel grande confronto tra Stati Uniti e Cina, l’Unione Europea si è trovata in una posizione complessa: spettatrice forzata in alcuni frangenti, protagonista riluttante in altri, stretta tra la necessità di difendere le proprie industrie e quella di preservare le regole del commercio multilaterale. La guerra dei dazi ha colpito direttamente anche i paesi europei, mettendo alla prova la capacità dell’UE di rispondere in modo coeso e strategico.

Dazi anche agli alleati: acciaio, alluminio e Airbus

Sebbene la retorica dell’amministrazione Trump fosse prevalentemente rivolta alla Cina, anche l’Unione Europea è stata oggetto di misure tariffarie. Nel marzo 2018, gli Stati Uniti hanno incluso i paesi europei nell’imposizione dei dazi del 25% sull’acciaio e del 10% sull’alluminio, giustificati con motivi di sicurezza nazionale. La misura ha sorpreso Bruxelles, che si considerava alleata storica degli Stati Uniti e ha interpretato la mossa come un atto ostile e unilaterale.

La risposta europea non si è fatta attendere: l’UE ha attivato contromisure per un valore di circa 2,8 miliardi di euro, colpendo simbolicamente prodotti americani come jeans, moto, bourbon e succo d’arancia. Il messaggio era chiaro: l’Europa era disposta a difendersi, anche sul piano commerciale.

Nel 2019, la tensione si è ulteriormente aggravata con l’annosa disputa Boeing-Airbus: l’Organizzazione Mondiale del Commercio ha autorizzato Washington a imporre dazi su 7,5 miliardi di dollari di beni europei, accusando l’UE di aver sovvenzionato illegalmente Airbus. La Commissione Europea ha risposto con misure simmetriche nel 2020, colpendo prodotti americani di alta gamma. Solo nel 2021, con l’amministrazione Biden, si è giunti a una sospensione reciproca dei dazi, a dimostrazione di quanto la guerra commerciale avesse raggiunto anche gli alleati.

L’UE tra autonomia strategica e regole del WTO

L’Unione Europea ha tentato di posizionarsi come difensore del multilateralismo e delle istituzioni globali. A più riprese, funzionari e commissari europei – da Cecilia Malmström a Valdis Dombrovskis – hanno sottolineato l’importanza di riformare il WTO piuttosto che abbandonarlo. Bruxelles ha anche avviato un’alleanza con il Canada e il Giappone per rilanciare un’agenda commerciale basata su regole condivise, in opposizione al protezionismo unilaterale.

Tuttavia, la guerra commerciale ha anche accelerato un dibattito interno all’UE su una maggiore autonomia strategica, soprattutto in ambito economico e tecnologico. Il concetto di “open strategic autonomy”, rilanciato a partire dal 2020, si è tradotto in iniziative come:

  • il potenziamento del Meccanismo di screening degli investimenti esteri;

  • il lancio di programmi industriali comuni nei settori dei semiconduttori, delle batterie e del cloud;

  • la proposta di una carbon border tax, per evitare la concorrenza sleale in ambito ambientale.

Come osserva Carlo Bastasin, editorialista economico e ricercatore presso Brookings, “la guerra commerciale ha costretto l’UE a ripensare il proprio ruolo: non più solo arbitro delle regole, ma anche attore geopolitico con strumenti propri di difesa commerciale”.

Limitazioni strutturali e fragilità politica

Nonostante gli sforzi, l’azione europea ha mostrato limiti evidenti: la difficoltà di assumere posizioni comuni in tempi rapidi, la dipendenza tecnologica da Stati Uniti e Cina, e la frammentazione degli interessi tra i vari Stati membri. L’industria tedesca, fortemente esposta verso la Cina, ha spesso frenato le iniziative più assertive, mentre altri paesi – come la Francia – hanno spinto per politiche più autonome e difensive.

Secondo Guntram Wolff, ex direttore di Bruegel, “l’UE non è stata solo spettatrice, ma anche vittima collaterale: i suoi margini di manovra sono stati limitati dalla sua struttura istituzionale e dalla necessità di mediare tra interessi divergenti”.

(continua 2.)


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