
8. Voci dall’economia: Krugman, Rodrik, Eichengreen, Bown
La guerra dei dazi promossa da Donald Trump ha diviso profondamente il mondo accademico ed economico. Se da un lato molti hanno criticato la mancanza di una strategia coerente e gli effetti distorsivi sul commercio globale, dall’altro alcuni studiosi hanno colto nell’iniziativa americana un tentativo, seppur goffo, di rimettere al centro il ruolo dello Stato nell’economia globale. In questa sezione esaminiamo alcune delle voci più autorevoli del dibattito.
Paul Krugman: il protezionismo senza visione
Paul Krugman, premio Nobel per l’Economia nel 2008 e uno dei più noti editorialisti del New York Times, è stato tra i critici più acuti della strategia di Trump. Pur non essendo contrario in linea di principio all’uso di strumenti protezionistici, Krugman ha più volte sottolineato l’improvvisazione e la contraddittorietà delle politiche commerciali dell’ex presidente.
In un editoriale del 2019, scriveva:
“Una guerra commerciale può essere giustificata se inserita in un disegno di lungo periodo. Ma l’amministrazione Trump ha usato dazi come minaccia e ricatto, senza una strategia coerente, generando caos e sfiducia.”
Krugman ha inoltre messo in guardia dai rischi di un nazionalismo economico che danneggia i consumatori, alimenta tensioni internazionali e indebolisce gli standard multilaterali.
Dani Rodrik: il giusto obiettivo, i mezzi sbagliati
Dani Rodrik, professore alla Harvard Kennedy School e tra i principali teorici del “trilemma della globalizzazione”, ha offerto una lettura più articolata. Secondo Rodrik, la guerra commerciale americana ha portato all’attenzione una serie di problemi reali: dalla manipolazione del mercato da parte della Cina alle asimmetrie nella governance globale.
In un saggio pubblicato su Project Syndicate, Rodrik osserva:
“Trump ha avuto il merito di rompere un tabù: l’idea che il libero commercio sia sempre e comunque positivo. Tuttavia, ha scelto i mezzi sbagliati e ha finito per minare la legittimità delle sue stesse istanze.”
Per Rodrik, ciò che serve non è una guerra commerciale, ma una nuova architettura istituzionale che tenga insieme commercio, diritti sociali, standard ambientali e sovranità democratica.
Barry Eichengreen: la storia come monito
Barry Eichengreen, storico dell’economia e professore a Berkeley, ha richiamato spesso le lezioni della Grande Depressione e della crisi del 1929 per spiegare i pericoli di una deriva protezionistica. Autore del libro “Globalizing Capital”, Eichengreen ha sottolineato come l’unilateralismo tariffario possa innescare spirali di ritorsioni difficili da controllare.
In un’intervista al Financial Times del 2020, dichiarava:
“La guerra commerciale di Trump ricorda i peggiori errori del passato: l’illusione che si possa isolare un’economia in un mondo interdipendente. Le conseguenze si sono viste nella perdita di fiducia e nell’aumento della volatilità globale.”
Eichengreen ha anche evidenziato l’effetto negativo dei dazi sulle aspettative di investimento, soprattutto nei paesi emergenti.
Chad Bown: l’analista delle regole e dei numeri
Chad P. Bown, senior fellow al Peterson Institute for International Economics, è tra i maggiori esperti di politiche commerciali applicate. Le sue analisi – supportate da dati aggiornati – hanno documentato passo dopo passo gli effetti dei dazi e delle contro-dazi, smontando molte delle affermazioni dell’amministrazione Trump.
Bown ha dimostrato che le importazioni cinesi negli USA sono state sostituite solo parzialmente da prodotti americani: nella maggior parte dei casi, gli importatori hanno virato verso altri paesi asiatici. Inoltre, ha messo in luce la mancata realizzazione degli impegni cinesi previsti dalla “Phase One Deal”, e ha concluso che l’intera operazione si è tradotta in un aumento delle incertezze più che in un rafforzamento dell’industria americana.
“Non c’è stato un ritorno massiccio della produzione in patria. La guerra commerciale ha semplicemente ridistribuito costi, senza creare benefici netti per i lavoratori americani.”
(C. Bown, PIIE Trade Tracker, 2021)
Queste quattro prospettive – tra loro differenti ma convergenti nella critica al metodo – aiutano a comprendere che la guerra dei dazi è stata molto più di una questione di tariffe: è stata uno spartiacque ideologico ed economico, che ha segnato una frattura nella narrazione del libero commercio come valore universale.
9. Trumpismo economico: una dottrina o un’eccezione?
A distanza di anni dall’inizio della guerra dei dazi, il dibattito accademico e politico ruota attorno a una domanda chiave: la politica economica di Trump è stata un’anomalia contingente oppure ha inaugurato una nuova fase del capitalismo americano, destinata a influenzare anche i suoi successori?
Il protezionismo come nuovo paradigma bipartisan
Se da un lato Donald Trump ha incarnato la rottura più visibile e rumorosa con l’ortodossia neoliberista, dall’altro è evidente che molte delle sue politiche commerciali non sono state abbandonate dall’amministrazione Biden. Al contrario, in alcuni casi sono state rafforzate.
Joe Biden ha mantenuto la maggior parte dei dazi su prodotti cinesi e ha rilanciato programmi di sovranità tecnologica e industriale, come l’Inflation Reduction Act e il CHIPS and Science Act, destinati a sostenere la produzione americana di semiconduttori, batterie e tecnologie verdi. In questo senso, la “dottrina Trump” è stata assorbita in parte anche dal Partito Democratico, sebbene con toni e obiettivi differenti.
Come osserva Edward Alden, esperto di commercio internazionale presso il Council on Foreign Relations:
“La vera eredità di Trump è aver spostato il centro del dibattito americano: non è più una questione di ‘se’ proteggere l’industria nazionale, ma ‘come’ farlo senza danneggiare i consumatori e le alleanze strategiche.”
Una dottrina senza teoria?
Tuttavia, molti osservatori ritengono che il “trumpismo economico” manchi di una coerenza teorica. Non è un sistema organico, ma una serie di impulsi reattivi: un misto di nazionalismo economico, unilateralismo e comunicazione populista, più utile alla mobilitazione dell’elettorato che alla risoluzione strutturale dei problemi.
L’economista Martin Wolf, editorialista del Financial Times, ha scritto:
“Trump ha risvegliato i demoni del protezionismo, ma non ha mai offerto un’alternativa funzionale al sistema che criticava. Ha demolito senza costruire.”
Questa mancanza di strategia ha reso le sue politiche volatili, esposte alle oscillazioni dei mercati e ai suoi stessi calcoli elettorali. Tuttavia, ha anche dimostrato quanto fosse fragile il consenso sul libero commercio e quanto fosse profonda la crisi di legittimità delle élite economiche tradizionali.
Effetti politici duraturi
Sul piano politico, il trumpismo ha lasciato una traccia profonda. Ha rilegittimato la politicizzazione dell’economia, mostrando che anche nel cuore del capitalismo avanzato è possibile rimettere in discussione dogmi consolidati. Ha ridefinito le alleanze elettorali, attirando parte della classe operaia bianca e rurale in un’area politica storicamente dominata dalla destra anti-stato. E ha costretto molti economisti e policymaker a rivedere il proprio vocabolario.
In questo senso, anche se Donald Trump dovesse non avere un ruolo futuro nella politica americana, il suo impatto continuerà a farsi sentire. Il protezionismo selettivo, la difesa dell’industria strategica, la sfiducia verso le istituzioni multilaterali e la retorica anti-globalista sono diventati parte integrante del dibattito economico globale.
10. Cosa ci insegna la guerra dei dazi sull’economia globale del XXI secolo
La guerra commerciale avviata da Donald Trump non ha soltanto imposto dazi, modificato accordi e spostato catene di fornitura: ha messo in discussione l’impalcatura ideologica e istituzionale su cui si è retto l’ordine economico globale per oltre trent’anni. In un certo senso, ha segnato la fine dell’illusione che la globalizzazione fosse un processo irreversibile, neutrale e sempre vantaggioso per tutti.
Un punto di non ritorno
Il libero scambio, da sempre presentato come dogma fondante della crescita, è stato ridimensionato nella sua portata universale. Non perché gli scambi internazionali abbiano perso rilevanza – al contrario, restano cruciali – ma perché si è cominciato a riconoscerne i limiti sociali, ambientali e geopolitici. L’esperienza della guerra dei dazi ha evidenziato come le interdipendenze globali, se non governate, possano generare asimmetrie, vulnerabilità e tensioni politiche.
L’uso dei dazi come strumento di politica industriale ha riportato al centro la questione del ruolo dello Stato, non più come garante passivo del mercato, ma come attore attivo nella protezione di settori strategici, nella regolazione della competizione tecnologica e nella salvaguardia dell’autonomia produttiva.
L’Occidente di fronte al dilemma cinese
L’altro grande lascito della guerra commerciale è il cambiamento strutturale del rapporto con la Cina. Il confronto avviato da Trump ha reso evidente che il problema non è solo economico ma sistemico: riguarda la coesistenza tra modelli di sviluppo divergenti, tra un capitalismo liberale e un capitalismo autoritario e pianificato.
Il paradosso è che proprio il paese più ostile alle regole del libero mercato – la Cina – ha saputo trarne maggiore vantaggio, diventando nel frattempo indispensabile per le catene di fornitura e i mercati globali. Come osserva l’analista geopolitico Parag Khanna, “la globalizzazione non è finita, ma si è spostata verso Oriente”.
In questo contesto, l’Europa e gli Stati Uniti sono chiamati a ridefinire la loro strategia economica, trovando un equilibrio tra apertura e difesa, tra cooperazione e competizione, tra globalismo e resilienza.
Verso un nuovo multilateralismo o una nuova frammentazione?
L’ultima grande lezione riguarda la governance globale. La crisi del WTO, la proliferazione di accordi bilaterali, il ritorno di politiche industriali nazionali suggeriscono che il vecchio modello multilaterale è in crisi. Ma la soluzione non può essere il ritorno ai nazionalismi economici. Al contrario, è necessario un nuovo patto internazionale che tenga conto della sostenibilità, dell’equità e della trasparenza.
La guerra dei dazi, con tutte le sue contraddizioni, ha avuto almeno un merito: ha aperto uno spazio di riflessione sul futuro del commercio e sulla necessità di riorganizzare il sistema economico mondiale su basi più solide, più democratiche e più inclusive.
Se il XX secolo è stato quello dell’iper-globalizzazione, il XXI sarà probabilmente quello della globalizzazione consapevole. La sfida sarà costruirla con regole nuove, evitando che si trasformi in una frammentazione regressiva. La guerra dei dazi, sotto questo profilo, non è solo una pagina controversa della presidenza Trump, ma un segnale profondo del tempo in cui viviamo.
11. La nuova ondata di dazi del 2025: protezionismo globale e riorientamento dell’economia americana
Con l’inizio del suo secondo mandato nel gennaio 2025, Donald Trump ha ripreso con forza la bandiera del protezionismo, rilanciando la sua visione di “America First” in chiave ancora più radicale. Il 2 aprile, durante un discorso definito “Liberation Day”, l’amministrazione ha annunciato l’imposizione di una nuova serie di dazi generalizzati sulle importazioni, suscitando reazioni immediate sui mercati internazionali e nelle capitali di mezzo mondo. L’iniziativa rappresenta una nuova fase della guerra commerciale: non più selettiva e bilaterale, ma sistemica e globale.
Il piano tariffario: una mappa delle nuove barriere
Il nuovo pacchetto di dazi prevede:
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Un dazio universale del 10% su tutte le importazioni negli Stati Uniti, indipendentemente dalla provenienza o dalla categoria merceologica.
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Ulteriori dazi differenziati per paese, con aumenti molto marcati verso economie asiatiche e partner europei considerati “inaffidabili” in materia di difesa e bilancia commerciale.
I principali incrementi sono:
Paese | Nuova aliquota media sulle esportazioni verso gli USA |
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Cina | Fino al 145%, con un extra 20% motivato da “attività illecite” legate alla produzione di fentanil. |
Unione Europea | 20% su tutte le importazioni, con punte del 35% su beni industriali. |
India | 26%, con focus su tessili, prodotti chimici e farmaceutici. |
Giappone | 24%, in particolare su componenti elettronici e auto. |
Vietnam | 46%, per bilanciare le delocalizzazioni post-2018. |
Taiwan | 32%, con particolare attenzione ai microchip. |
Corea del Sud | 25%, sulle tecnologie e semiconduttori. |
Cambogia | 49%, in risposta alla crescita dell’export di abbigliamento. |
Secondo il Peterson Institute for International Economics, queste misure hanno portato il livello medio ponderato dei dazi statunitensi al 24,2%, il più alto dalla Seconda guerra mondiale.
Le motivazioni dell’amministrazione: sicurezza, sovranità, politica industriale
Nel discorso di annuncio, Trump ha giustificato la mossa con tre principali argomenti:
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Sicurezza nazionale: la dipendenza da paesi “ostili” per componenti tecnologici e materiali strategici viene considerata un rischio inaccettabile.
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Ribilanciamento commerciale: i nuovi dazi sono pensati per colpire i paesi con grandi surplus nei confronti degli USA, in particolare la Cina (con oltre 370 miliardi di dollari di saldo positivo nel 2024).
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Rilancio dell’industria americana: la protezione tariffaria dovrebbe stimolare il reshoring e la riattivazione di impianti industriali in Midwest e Sud.
Tuttavia, gli analisti hanno fatto notare che manca una strategia coerente di politica industriale a sostegno del manifatturiero. I dazi, da soli, rischiano di innescare inflazione e disallineamenti senza garantire reali investimenti produttivi.
Reazioni internazionali: una nuova ondata di ritorsioni
La risposta dei partner commerciali è stata dura:
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La Cina ha immediatamente replicato con contro-dazi su 350 miliardi di dollari di merci statunitensi, in particolare su beni agricoli, aerospaziali e automobili. La media tariffaria è salita al 125%, mentre Pechino ha accusato Washington di “ostilità strutturale” e ha aperto una nuova procedura contro gli USA presso il WTO.
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L’Unione Europea, attraverso la presidente della Commissione Ursula von der Leyen, ha annunciato un piano in tre fasi:
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Fase 1: dazi difensivi su acciaio, alluminio e auto.
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Fase 2: investimenti per la reindustrializzazione europea e diversificazione commerciale.
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Fase 3 (in via di definizione): possibile sospensione di accordi bilaterali in corso con gli USA.
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Altri paesi colpiti, come Giappone, Corea del Sud e India, stanno esplorando alleanze tariffarie multilaterali per rispondere in modo coordinato, ipotizzando un nuovo asse commerciale asiatico-europeo.
Effetti interni: inflazione, volatilità finanziaria, instabilità logistica
Nel giro di pochi giorni, gli effetti si sono fatti sentire:
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Inflazione: la Federal Reserve ha rivisto al rialzo le previsioni di inflazione per il secondo trimestre 2025, stimando un aumento medio dei prezzi tra l’1,2% e il 1,7% solo a causa delle nuove misure tariffarie.
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Borse: l’S&P 500 ha perso il 3,8% in una settimana, mentre il Nasdaq ha registrato il peggior calo dal marzo 2020, secondo dati Bloomberg.
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Supply chain: diverse aziende americane, tra cui General Motors, Apple e Procter & Gamble, hanno annunciato revisioni ai contratti di fornitura, ipotizzando aumenti nei costi e ritardi nelle consegne per il secondo semestre dell’anno.
Un’America più isolata?
Mentre l’amministrazione Trump continua a sostenere che “gli Stati Uniti non hanno bisogno di importare, ma di produrre”, molti economisti avvertono che il rischio è quello di una spirale di isolamento e rallentamento economico.
Il Nobel Joseph Stiglitz ha commentato su The Guardian:
“I dazi del 2025 non proteggono l’America: la isolano. L’inflazione salirà, i partner reagiranno, e i lavoratori pagheranno ancora una volta il prezzo più alto.”
Anche analisti conservatori come Larry Kudlow hanno espresso perplessità, parlando di “misure non coordinate con gli interessi delle imprese americane”.
Questa nuova fase della guerra commerciale segna un punto di svolta: la globalizzazione non è più soltanto in crisi, è formalmente rinegoziata dalle grandi potenze. Il 2025 potrebbe essere ricordato come l’anno in cui il commercio internazionale ha perso definitivamente la sua neutralità tecnica, diventando a tutti gli effetti un terreno di scontro geopolitico e identitario.
(FINE)