
(Federica Cannas) – Quello che sta accadendo a Gaza da mesi ha un solo nome: GENOCIDIO. Non è un’opinione, è un fatto. E chiamarlo in altro modo è complicità. Troppe bocche piene di diplomazia, troppi governi paralizzati dalla paura di disturbare. Eppure qualcuno ha avuto il coraggio di dire le cose come stanno. Quella voce viene dal Sud del mondo e ha il volto e il nome di Gustavo Petro.
Il presidente colombiano ha fatto ciò che molti leader del cosiddetto “mondo civile” non hanno avuto l’onestà né la dignità di fare. Ha rotto il silenzio. Ha rotto i rapporti diplomatici con Israele, ha denunciato il massacro sistematico del popolo palestinese, ha chiamato a raccolta i Paesi che ancora credono nella giustizia. Ma soprattutto ha avuto la forza di organizzare, insieme al Sudafrica, la Conferenza di Bogotá. Una chiamata mondiale, una riunione urgente della coscienza, un grido dal profondo del Sud globale che dice basta.
Mentre Gaza brucia, mentre decine di migliaia di corpi si sommano in una conta che ha perso ormai il volto delle singole vittime, l’Occidente si limita a balbettare. Le cancellerie europee misurano le parole come se la morte fosse una questione di equilibrio semantico. Alcuni fingono equidistanza, altri sostengono apertamente chi bombarda, chi affama, chi distrugge.
Eppure a Bogotá, in Colombia, è successa una cosa rara, straordinaria, quasi incredibile. Oltre trenta Paesi, tra cui Bolivia, Cuba, Sudafrica, Spagna, Qatar, Irlanda e persino la Cina, si sono ritrovati per dare una forma concreta alla solidarietà. Un vertice che propone misure reali, dure, precise. Isolare Israele a livello globale, bloccare l’export di armi verso Tel Aviv, impedire alle navi legate all’industria bellica israeliana di attraccare nei propri porti. Applicare le ordinanze della Corte Penale Internazionale contro Netanyahu e Gallant.
Un mondo intero ha taciuto mentre venivano sterminati bambini, medici, giornalisti, madri, padri. Petro ha parlato. E ha agito.
Gustavo Petro non è nuovo alla verità. Ma questa volta ha alzato la posta. Lo ha fatto con lucidità e rabbia, con tenerezza e rigore. Ha detto una frase che da sola dovrebbe campeggiare sui muri delle città, e nei titoli dei giornali: “Se la Palestina muore, muore tutta la civiltà umana.”
Questa non è retorica. È una fotografia della nostra epoca. Se lasciamo che la Palestina venga cancellata, annientata, se permettiamo che il mondo veda tutto questo e non dica nulla, allora non siamo più esseri umani. Siamo spettatori di un orrore che ci trascina nell’abisso dell’indifferenza.
Petro non ha parlato a nome del diritto, della dignità, della vita. Lo ha fatto anche contro i venti contrari. Parte della comunità ebraica colombiana ha protestato, accusando il governo di squilibrio. Ma cosa c’è di squilibrato nel voler fermare un genocidio?
Francesca Albanese, relatrice ONU per i diritti umani nei territori palestinesi, presente a Bogotá, ha chiesto ciò che andava chiesto da tempo: l’interruzione di ogni legame militare, finanziario, commerciale con Israele. Ha parlato di “economia del genocidio”. E non ha avuto paura.
Per chi crede nella politica come strumento di liberazione, la conferenza di Bogotá rappresenta un segnale fondamentale. In un mondo disorientato, Petro mostra cosa significa essere un capo di Stato che non svende la propria coscienza per un accordo commerciale o per paura di disturbare i grandi. Fa politica come dovrebbe essere sempre fatta. Con la testa alta e il cuore dalla parte giusta.
Non è questione di essere “contro Israele” o “a favore della Palestina” come se fossimo allo stadio. È questione di giustizia. Di verità. Di umanità. Gaza oggi è l’inferno sulla terra, e il silenzio di molti Paesi è totale complicità.
Da Bogotá arriva una voce che mette in discussione l’ordine ipocrita di questo mondo. Che sfida l’Occidente complice. Che chiama i popoli a non assistere più inerti alla distruzione di un intero popolo. Il Sud globale, quello che troppo spesso viene rappresentato come periferia, come coda del mondo, sta tracciando una nuova geografia della responsabilità.
Non abbiamo bisogno di promesse. Abbiamo bisogno di atti. E Petro ha cominciato. Tocca a tutti noi ora decidere se vogliamo continuare a fingere di non vedere, oppure unirci a questa lotta. Una lotta per salvare non solo la Palestina, ma l’idea stessa di giustizia.
Perché se Gaza muore, muore tutto. Ma se Gaza resiste, e resiste, nonostante tutto, allora forse c’è ancora speranza per il mondo.