Bruxelles, una scia di sangue cha passa da Ankara


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(Luisanna Deiana) – Alle 8 di martedì 22 marzo due esplosioni hanno devastato il terminal partenze dell’aeroporto di Bruxelles dove 13 persone hanno perso la vita e altre 80 sono rimaste ferite. Un’ora dopo 15 persone sono rimaste uccise nell’esplosione di altre due bombe alle fermate metro di Maelbeek e Schumann, 55 sarebbero i feriti. Già da venerdì scorso, dopo l’arresto avvenuto a Molenbeek di Salah Abdeslam, l’ultimo autore delle stragi di Parigi del 13 novembre, l’allerta terrorismo era rimasta a livello 3, un livello sotto l’allerta massima.

Sabato mattina anche Istanbul è stata sconvolta dall’esplosione di una bomba nel quartiere commerciale di Beyoglu, cuore turistico della città. Nell’attentato sono morte 10 persone, tra cui 8 turisti tedeschi, e almeno 36 sono rimaste ferite. Il bilancio della strage del 14 marzo a Ankara è ugualmente spaventoso, 37 morti e 125 feriti.

La scia di sangue che sta attraversando l’Europa e dalla Turchia arriva fino alla città sede delle istituzioni europee non è una sorpresa. Dopo gli attentati di Parigi si è diffusa la consapevolezza che il jihadismo è radicato in alcuni paesi europei e molte delle nuove reclute sono cittadini stranieri di seconda e terza generazione.

Non sorprende che i paesi colpiti dai recenti attentati siano anche i paesi che hanno contribuito con il maggior numero di foreign fighters alla guerra in Siria. Se a Bruxelles il Jihadismo trova terreno fertile nella condizione di esclusione sociale ed economica della comunità araba di cui il quartiere di Molenbeek è un chiaro esempio di mancata integrazione, a Istanbul l’attentato compiuto da un cittadino turco, è da ricondursi ai “Dokumacilar”, uno dei principali gruppi appartenenti alle milizie dell’ISIS con sede nella città di Adiyaman, regione povera e arretrata della Turchia sud-orientale, prossima al confine siriano e distante 200km da Kobane.

All’origine del Jihadismo belga è la condizione di forte emarginazione delle comunità arabe a Bruxelles. La scelta delle istituzioni cittadine di demandare ai rappresentanti delle comunità arabe l’organizzazione delle attività di integrazione culturale ha prodotto il suo esatto contrario. Si tratta di un problema che ha radici profonde ed è riconducibili all’enorme fenomeno migratorio avvenuto tra gli anni ’50 e anni ‘70 proveniente da Maghreb e Turchia. Oggi turchi e marocchini sono tra le principali comunità di immigrati del paese e i giovani arabi vivono in condizioni di grave emarginazione sociale con punte di disoccupazione del 40%. Parallelo all’esclusione sociale è l’abbandono da parte delle forze di sicurezza locali che hanno uno scarso controllo sulla microcriminalità e raramente creano relazioni di collaborazione con i rappresentanti della comunità islamica. L’isolamento dei quartieri arabi ne fa quindi il luogo privilegiato per attentatori e jihaidisti che cercano protezione e vie di fuga.

Anche in Turchia gli attentatori provengono dalle regioni più povere del paese e sono facilmente arruolati dagli imam propagatori di ideologie estremiste. A questo si aggiunge la diretta responsabilità del governo di Ankara che è sotto gli occhi di tutti. Gli uomini del califfato sono stati sostenuti dalla scelta turca di lasciare libero transito ai confini per combattenti e traffici di armi, droghe e soprattutto petrolio.

Se l’intervento russo ha scompaginato le carte, l’alleanza tra Stati Uniti e Pkk siriano ha fatto dei territori del nord della Siria occupati dal califfo il principale bersaglio degli attacchi curdi e solo il rischio che la regione diventasse un nuovo Kurdistan ha mosso Erdogan ad un cambio di rotta contro l’ISIS con l’inizio dei bombardamenti sulle postazioni del califfato, per installarvi bande di ribelli anti-Asad arabo-turkmeni controllate da Ankara.

L’insuccesso della strategia turca e il fallito tentativo di manipolare lo Stato Islamico è culminato nella proclamazione di una federazione autonoma curda nella Siria del Nord. Si è quindi avverato il principale incubo di Erdogan che ora diventa il perfetto capro espiatorio per giustificare il fallimento delle devastanti politiche occidentali in Medio Oriente. I finanziamenti di Bruxelles destinati alla Turchia per contenere l’esodo dei migranti siriani verso l’Europa sono implicitamente un attribuire alla politica di Erdogan la responsabilità dei flussi di jihadisti che rappresentano un serio pericolo per la stabilità europea.

Dopo Charlie Hebdo, Parigi e Bruxelles non bastano più gli accorati proclami dei leader europei contro lo Stato Islamico, a nulla serve finanziare il doppio giochismo turco, occorre che l’Europa decida di assumere un ruolo determinante sulle vicende mediorientali, contribuendo alla definitiva pacificazione della regione.

 

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