(Bruno Scapini) – Il 15 gennaio è iniziata negli Stati Uniti la corsa alle elezioni presidenziali. Un esercizio elettorale probabilmente tra i più conflittivi della Storia americana giungendo in un momento storico particolarmente critico non solo per l’America, ma per l’intera Umanità.
La polarizzazione ideologica è al suo apice nel mondo occidentale, e il capitalismo globalista e autocratico, forte delle divisioni provocate nella società, punta ora al conseguimento di una egemonia del potere di respiro planetario. Sotto la spinta delle trasformazioni promosse con inspiegabile urgenza e contestualità dai centri di potere tecno-finanziario sovranazionali – eufemisticamente definite “transizioni” – la strada della Storia è giunta ad una biforcazione: o accettare i modelli di vita imposti o opporvisi.
Emblematica della situazione appena descritta è proprio la lotta in corso ora negli Stati Uniti tra i due maggiori contendenti, il Partito Democratico e quello Repubblicano. Un confronto-scontro aspro e spietato che viene condotto dai suoi esponenti senza esclusione di colpi. Perché mai si sarebbe giunti a questo punto?
Il destino del mondo è oggi pervenuto a un bivio: o accettare la strada delle “transizioni” verso obiettivi peraltro ancora oscuri e fuorvianti, o perorare la causa di un ritorno alla “normalità”. Normalità che non vuol dire passività, rifiuto del progresso, bensì recupero di un modello di sviluppo conforme alle capacità naturali dell’uomo di comprenderlo (nel rispetto del suo libero giudizio), accettarlo (nel rispetto della sua volontà) e metabolizzarlo (senza pregiudizio per la sua dimensione naturale).
Il capitale globalizzato si è oggi imposto. E, avvalendosi degli strumenti offerti da sconsiderate politiche iper-liberiste, è riuscito, conseguendo crescite senza precedenti, a sottrarre terreno alla politica inibendo al cittadino, al popolo e agli stessi Governi ormai sottomessi, la capacità di mettere a dibattito scelte e destini. Per giungere a tale risultato, aspetto non irrilevante, questi poteri della nuova ribalta hanno ben ritenuto di appoggiarsi proprio a quelle forze democratiche-progressiste che invece, in una prospettiva di medio-lungo periodo, intendono combattere e annichilire. Sono queste forze, infatti, che offrono ai poteri la migliore arma strategica per imporre, in nome di un libero e quanto mai falso progressismo, i loro progetti di monopolizzazione del potere sul Pianeta.
La battaglia elettorale USA, appena inaugurata nell’Iowa, rifletterebbe, quindi, a ben guardare proprio questa contrapposizione. I popoli oggi si riconoscono o in Donald Trump o in Joe Biden, i due massimi contendenti. Sono loro gli Orazi e i Curiazi del tempo post-moderno. Sono loro le iconiche figure che decideranno la strada da intraprendere. In gioco è l’intero sistema delle libertà democratiche messo a rischio da una serie di “transizioni”, svariate di numero e diverse per natura, imposteci dall’autocrazia finanziaria oggi imperante; e non solo in America, ma per un effetto di inevitabili ricadute (spillover) il quadro politico potrà replicarsi in tutti i Paesi occidentali e oltre ancora.
La polarizzazione dunque c’è in queste elezioni americane, ed è anche evidente avendo il fenomeno innegabilmente raggiunto un livello mai prima immaginato. Ma un riorientamento sembra anche evidente in questo esercizio. E lo dimostrerebbe il consenso che gradualmente starebbe guadagnando la candidatura di Trump rispetto alle altre concorrenti. Non c’è dubbio che una nuova sua “presidenza” inaugurerebbe verosimilmente un corso inverso rispetto a quello seguito dall’attuale inquilino della Casa Bianca. Un corso in cui, sul piano internazionale (prevalente in un’ottica di stabilità planetaria), si dovrà guardare con maggior attenzione al perseguimento della pace e, in particolare, al ristabilimento di un rapporto di leale cooperazione con la Russia, unica vera chiave di volta per una mitigazione delle tensioni internazionali oggi in ebollizione su vari fronti. Una politica, questa, per la quale Trump, nel suo primo mandato, è stato fortemente osteggiato da una opposizione del “deep State” che non gli ha concesso né di governare normalmente all’interno, creando all’uomo una serie di ostacoli giudiziari, né di instaurare, in politica estera, un clima di rasserenamento delle tensioni con Mosca quale condizione primordiale e imprescindibile per rimettere in asse il corso storico. Pace e disarmo sembrano parole oggi bandite dal linguaggio politico. Il “deep State” americano, contrario alla prospettiva di un mondo multipolare, ha voluto singolarizzare la Russia ad ogni costo, additandola quale nemico di sempre; e lo ha fatto in ossequio ai sordidi interessi di un “industrial-military complex” che non si fa scrupolo di suscitare guerre un po’ ovunque nel mondo pur di assecondare i propri interessi in una visione egemonica del Pianeta.
Ironia della sorte, e al contempo prova di questa perversione della politica – ma sarebbe più consono parlare di “ipocrisia della sorte”- è stata l’assegnazione all’ex Presidente Barack Obama, per l’appunto un democratico, distintosi per aver alimentato negli ultimi anni più guerre di qualunque altro suo predecessore, di un quanto mai perplesso e immeritato Premio Nobel per la Pace!
*Bruno Scapini, già Ambasciatore d’Italia. Presidente Onorario e Consulente Generale. Ass.ne Italo-armena per il Commercio e l’Industria