
(Federica Cannas) – “Le sofferenze dei bambini a Gaza sono totalmente intollerabili”. Con queste parole, il primo ministro britannico Keir Starmer ha finalmente preso posizione, aggiungendo con fermezza: “Voglio mettere a verbale oggi che siamo inorriditi dall’escalation da parte di Israele”.
Non è uno sfogo a caldo, è un atto politico. È la voce del leader di uno dei principali alleati occidentali di Israele, che rompe il silenzio e lo fa senza ambiguità.
A questa presa di posizione ha fatto seguito una decisione concreta e simbolicamente potente: la sospensione dei negoziati commerciali tra Regno Unito e Israele. Un gesto che non solo evidenzia l’insofferenza di Londra per la direzione assunta da Netanyahu, ma che segna anche una frattura profonda all’interno del fronte occidentale, finora compatto e spesso complice.
Anche l’Unione Europea, che per troppo tempo ha esitato, ha finalmente annunciato l’avvio di una procedura di revisione del trattato di associazione con Israele, quel trattato che regola le relazioni politiche e commerciali con Bruxelles e che, all’articolo 2, vincola la cooperazione al rispetto dei diritti umani.
A comunicarlo, il 20 maggio, è stata Kaja Kallas, l’Alta rappresentante per la Politica estera dell’UE, che ha parlato a margine del Consiglio Affari Esteri. “Una forte maggioranza dei Paesi membri è favorevole a questa revisione”, ha dichiarato.
Si tratta di una svolta importante, arrivata a oltre un anno e mezzo dalle prime richieste avanzate da Spagna e Irlanda, tentativi che il predecessore Josep Borrell aveva provato a sostenere, scontrandosi però con la resistenza di molte capitali.
Ora, però, lo scenario è cambiato. Le immagini da Gaza, i dati dell’ONU, le pressioni interne ai Parlamenti europei stanno finalmente incrinando il muro dell’indifferenza. Il tema è stato discusso formalmente il 19 maggio, e la proposta ha ottenuto un sostegno ampio.
Ma in questo contesto, l’Italia ha scelto di votare contro, assumendo una posizione chiara e isolata. Mentre altri Paesi, anche con esitazioni, iniziano a mettere in discussione i rapporti con Israele, il governo italiano continua a difendere lo status quo, rifiutando l’idea di legare relazioni commerciali al rispetto dei diritti umani. Una scelta che è una linea politica precisa.
Nel frattempo Gaza non è più da tempo una città. È una trappola. È la rappresentazione perfetta di cosa accade quando il diritto internazionale viene calpestato nel silenzio colpevole di tanti. Troppi.
Ma non si muore solo per le esplosioni. Si muore di fame, di sete, di infezioni, di mancanza di cure, di assenza di umanità.
Non servono più analisi. Parlano i numeri. Oltre 53.000 morti palestinesi dall’inizio dell’operazione del 7 ottobre 2023. Secondo l’ONU, più di 14.000 neonati rischiano la morte per fame. Le Nazioni Unite denunciano il crollo completo del sistema sanitario, la distruzione di ospedali e ambulanze, l’impossibilità di far arrivare aiuti umanitari, con convogli bloccati o bombardati.
Le immagini parlano da sole. Ma se le immagini non bastano, ci sono le parole. Le organizzazioni umanitarie parlano apertamente di uso della fame come arma di guerra. Di colpire deliberatamente i civili. Di strategie punitive che vanno ben oltre la difesa, e configurano un piano di annientamento.
Non siamo di fronte a un conflitto. Non c’è simmetria, non c’è confronto. C’è un popolo che subisce, chiuso in una prigione a cielo aperto. E c’è un esercito che bombarda dall’alto, che affama, che cancella. Non è guerra. È una carneficina.
Per mesi, i governi occidentali hanno cercato di giustificare. Legittima difesa. Ma fino a che punto può essere legittima una difesa che annienta ogni vita, che cancella ogni cosa? La retorica della sicurezza è servita a coprire l’inazione, a giustificare l’invio di armi, a continuare affari come se nulla fosse.
E ora che i cadaveri sono troppi anche per i giornali più prudenti, si assiste a un’improvvisa corsa a prendere le distanze. Ma sono parole di facciata, spesso vuote. Perché nessuna vera pressione diplomatica è stata esercitata. Nessuna sanzione economica significativa è stata imposta. Nessuna minaccia concreta di isolamento. Solo indignazione selettiva, a seconda dell’interesse geopolitico.
Chi oggi si dichiara “scosso” sapeva. Le agenzie umanitarie avevano lanciato l’allarme da mesi. Le ONG documentavano tutto. I giornalisti indipendenti, quando ancora riuscivano a entrare, riportavano testimonianze insostenibili. Ma il mondo “libero” ha voltato lo sguardo. Ha preferito ignorare.
Oggi il termine genocidio non è più solo un grido politico. È una categoria giuridica che molti osservatori, giuristi e associazioni per i diritti umani considerano pienamente applicabile a quanto sta accadendo a Gaza. Il genocidio è l’annientamento intenzionale, sistematico, parziale o totale, di un gruppo etnico. E cosa sta accadendo se non questo?
Colpire deliberatamente i civili. Privare un’intera popolazione dei beni essenziali. Bombardare le vie di fuga. Usare la fame come arma. Distruggere ogni possibilità di sopravvivenza. Costringere al silenzio chi denuncia. Sono atti deliberati, mirati, sistematici. E chi ancora li chiama incidenti collaterali è complice.
Un giorno la storia ci chiederà: dov’eravate mentre si consumava il genocidio di Gaza?
E non potremo dire che non lo sapevamo. Perché lo sapevamo. Le immagini c’erano. I dati c’erano. Le voci c’erano. Ma abbiamo scelto di tacere. Peggio, abbiamo scelto di giustificare.
Il termine giusto non è conflitto.
Il termine giusto non è operazione.
Il termine giusto non è equilibrio geopolitico.
Il termine giusto è crimine.
È genocidio.
E ogni giorno che passa senza fermarlo è un giorno che ci rende tutti più colpevoli.