DAMASCO 2013, NON È BASTATO QUEL KALASHNIKOV


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Quella sera Damasco era come una città normale, sembrava che il silenzio di quelle strade non fosse dettato dalla paura del conflitto ma dalla voglia di silenzio della notte che stava per cominciare.

Dall’albergo situato nel quartiere cristiano ci mettemmo in auto, Nizzar aveva una bella Mercedes, non nuovissima, ma tenuta bene e soprattutto lucida e pulita.

A noi sembrava strano che in mezzo a quel conflitto, era il 2013, si potesse uscire per strada con una bella macchina per andare a cena fuori.

L’anno precedente per raggiungere la casa del Presidente e il Palazzo del Parlamento avevamo cambiato 7 automobili e non tutte erano di nuova fattura.

Prima di andare a cena, Nizzar ci portó a casa sua: quanta dignità quell’uomo e quella famiglia. Voleva dimostrarci tutta la sua amicizia con quel gesto, portarci nel luogo della sua vita quotidiana, dove viveva la sua famiglia.

Una bella casa, molto curata, del resto lui era sempre impeccabile anche nel vestire, abito grigio scuro, camicia bianca e scarpe sempre lucide.

La casa aveva un pavimento che dava sui toni del grigio di marmo, non era grandissima ma arredata con gusto e modernità. Poteva essere tranquillamente una casa Parigina.

Dopo averci offerto da bere ed aver salutato la famiglia abbiamo deciso di andare verso il ristorante. Ancora un po di strada in macchina e poi a piedi nelle viuzze del centro storico di quella bellissima città che era Damasco.

Ci aveva raggiunto il Presidente della Mezza luna Rossa Siriana, omologa della nostra croce rossa. Che bello camminare per le vie di Damasco, silenziose, piene di storia, di profumi orientali. Sembrava a quell’ora una città serena, se non sapessimo che a pochi chilometri si combatteva e che ancora il campo profughi di Yarmuk era occupato dagli Jaidisti fatti entrare da Hamas, sarebbe stata una serata come tante altre in una delle tante città del vicino oriente.

Pioveva un pochino, ma nè a noi e neanche a Nizzar ed al Presidente importava di quelle poche gocce d’acqua che bagnavano la strada.

Quelle strade erano fatte in pietra, le classiche stradine dei centri storici delle città Siriane o Libanesi. La pietra era liscia e quasi scivolosa, quanta gente le aveva percorse, il segno della storia lunga e rigogliosa di una delle più belle città del mondo.

Avevamo lascito la macchina a 500 metri dal ristorante, non ho capito bene se si trattasse di prudenza oppure non si potesse accedere più vicino. Ma quei 500 metri era bellissimo percorrerli sotto quella leggera pioggerellina che ripuliva la polvere di un conflitto che durava ormai da due anni.

La porta del ristorante era ampia, un gran portone con la parte superiore tondeggiante i fregi arabi di colore tendente al vede. Entrammo e con immensa sorpresa la sala era piena di persone, famiglie, donne bambini. Sicuramente era un ristorante abbastanza elegante. Ci stavano aspettando degli amici già seduti a tavola, erano felici della nostra presenza. Quasi come si sentissero protetti. Potevano raccontarci quanto stava accadendo, la loro speranza era che noi al rientro in Italia avremmo raccontato e spiegato cosa accadeva alla pove Siria.

La cena fuori deliziosa: carne, verdure legumi. Avevano fatto sicuramente un grande sacrificio per offrirci quella cena. Ma si leggeva nei loro occhi l’orgoglio della ospitalità. In questo i Siriani assomigliano tanto a noi Sardi.

La cosa che però mi sorprese di più è che in quel locale sembrava che la guerra non ci fosse. Musica, qualcuno addirittura ballava, tante donne, quasi tutte a capo scoperto, bellissime, curatissime, sopracciglia tatuate, rossetto acceso e tanto colore. Oggettivamente le donne Siriane sono davvero belle. Una serata indimenticabile a parlare di guerra, di politica, della Accademia formativa che avremmo visitato il giorno dopo. Quella era la Damasco dei giorni normali, quella che loro vivevano prima della guerra importata in Siria, quella nella quale, unico esempio nell’area, si percepiva quella immensa integrazione fra le varie componenti religiose del Paese. A tavole c’erano Cristiani, Sunniti Sciiti, Alawiti ed anche un Curdo. Questo era quello che non volevano perdere, quella capacità di integrarsi che solo in Siria era armonicamente perfetta.

La serata durò alcune ore, ma sembrarono minuti tanto era bello discutere, sorridere, raccontare, sperare.

Tante lingue, prevalentemente francese, ma era facile comprendersi, gli occhi di quelle persone esprimevano bontà e gioia ma nascondevano dolore e paura.

Senza paura non si è uomini, non si è  donne, la paura per gente come loro è forza e determinazione.

Determinazione a cacciare via coloro che vogliono una Siria diversa, senza quei diritti conquistati negli anni, senza la contaminazione fra popoli e genti venute da lontano ma che in Damasco hanno trovato la loro culla.

La stessa determinazione che ho visto negli occhi di Nizzar quando, per farmi appoggiare la borsa, aprì il cofano posteriore della sua Mercedes blu e, poggiato sulla moquette grigia, c’era un kalasnikov. Rosso in viso tentó una giustificazione. Un uomo con un bell’abito, una cravatta elegante aveva un’arma letale nella sua auto.

Mi spiegó che la strada che lui percorreva per andare in Lattakia è pericolosa e doveva difendere se stesso e la sua famiglia. Gli misi una mano sulla spalla per fargli coraggio, un uomo buono costretto a portare con sé un oggetto di morte. Ma questa è la Siria che ha voluto chi la ha portata in guerra. Pensai al giorno dopo, quando sarei dovuto entrare a Yarmuk e a quelli che mi aspettavano per raccontarmi la loro storia, nella speranza che io questa storia la raccontassi. Ma in occidente orecchie pronte ad ascoltare ne ho trovate ben poche, ecco perché oggi piango quella Siria, quella tolleranza, quella libertà. Quel kalasnikov non è  servito a nulla a fronte dell’ arroganza di un occidente predatore che ha distrutto l’ultima perla libera del vicino Oriente.

Raimondo Schiavone

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