
(Federica Cannas) – Un ritiro politico e simbolico che guarda al futuro, all’essenza stessa della democrazia e alla costruzione di un fronte comune capace di incidere nel mondo di oggi. A promuoverlo è Gabriel Boric, presidente del Cile e uno degli esponenti più giovani e lucidi della nuova sinistra latinoamericana. Il 21 luglio, a Santiago del Cile, con Boric ci saranno i leader progressisti Lula da Silva, Gustavo Petro, Pedro Sánchez, Yamandú Orsi.
“Democracia Siempre” non è un evento formale, ma l’ambizione, questa sì, è alta. Si discuterà, in modo franco e diretto, su come rilanciare la causa progressista a livello internazionale, rafforzando il multilateralismo e lottando contro le nuove minacce alla convivenza democratica.
C’è qualcosa di nuovo e insieme di profondamente coerente in questa iniziativa. I leader coinvolti, dal Brasile alla Colombia, dalla Spagna all’Uruguay, rappresentano esperienze differenti, con storie, linguaggi e priorità non sempre coincidenti. Eppure, si stanno muovendo con la consapevolezza comune che senza una visione collettiva capace di parlare al presente, le forze progressiste rischiano di restare isolate, difensive, in balia della reazione e del populismo.
Il ritiro di Santiago nasce anche da una preoccupazione reale. L’aumento delle fake news, l’uso distorto delle tecnologie digitali, la polarizzazione sociale e il crescente discredito delle istituzioni democratiche. Temi spesso trattati in modo tecnico o accademico, che qui vengono riportati al centro della battaglia politica. Come costruire società più giuste, solidali e resistenti alle manipolazioni? Come riformare le democrazie senza snaturarle? Come tornare a parlare alle persone, ai territori, ai bisogni concreti?
L’elemento forse più significativo di questo incontro è la sua proiezione internazionale. Non si tratta di un’alleanza latinoamericana, né di un’iniziativa europea. È un’alleanza tra Sud e Nord, tra governi che provano, pur con mille ostacoli, a mettere in pratica ciò che predicano. Lula e Petro, con le loro politiche sociali e ambientali; Sánchez, con le sue battaglie su diritti civili e riforme del lavoro; Boric e Orsi, protagonisti di un nuovo linguaggio progressista che guarda ai giovani, alla trasparenza, alla giustizia sociale come motore della politica.
L’obiettivo non è solo condividere buone pratiche, ma anche dare un segnale di unità, far capire che esiste un’alternativa concreta alla logica della paura, dell’individualismo e del neoliberismo esasperato. E che questa alternativa passa attraverso la cooperazione tra Stati, il rispetto delle istituzioni internazionali, il rafforzamento dei diritti collettivi.
Il ritiro servirà anche a definire una piattaforma comune, che sarà presentata all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite a settembre. Tra i temi in discussione ci sono la lotta alla disinformazione, la regolazione delle grandi piattaforme digitali, la difesa dei processi democratici, la giustizia climatica, i nuovi modelli di sviluppo e l’inclusione sociale. Ma soprattutto, c’è la volontà di rilanciare la politica come strumento di emancipazione e non come esercizio di potere autoreferenziale.
Non è la prima volta che questi leader si confrontano. Già a febbraio avevano cominciato a delineare questo percorso comune. Ora lo portano fuori dai palazzi e lo collocano in un Paese, il Cile, che ha vissuto negli ultimi anni una straordinaria esperienza di mobilitazione popolare e di riflessione costituente, pur tra battute d’arresto e delusioni.
Particolarmente rilevante è la presenza di Yamandú Orsi, neo-presidente dell’Uruguay, un politico capace di parlare al suo popolo con concretezza e visione, figlio del Frente Amplio ma capace di rinnovarne lo spirito. La sua partecipazione dimostra come anche i piccoli Paesi possano svolgere un ruolo chiave nella costruzione di reti regionali e globali fondate sulla solidarietà e sull’intelligenza politica.
La politica appare spesso in ritardo rispetto ai cambiamenti del mondo. Il ritiro di Santiago non sarà certo risolutivo. Ma è un esperimento necessario, un gesto controcorrente che ci ricorda che il progressismo è una pratica viva, che richiede confronto, autocritica, visione e capacità di fare rete. In un continente come l’America Latina, dove la democrazia porta ancora le cicatrici delle dittature, e in un’Europa attraversata da pulsioni sovraniste, questo incontro mostra che un’altra politica è possibile. Una politica che vale la pena ascoltare. E, soprattutto, sostenere.