(Francesco Gori) – Con la liberazione di Vanessa Marzullo e Greta Ramelli, le due attiviste rapite in Siria e rilasciate qualche giorno fa dopo oltre cinque mesi di prigionia, si è rifatto vivo anche Daniele Raineri, giornalista de Il Foglio, che ha accompagnato le ragazze, attraverso il pericolassimo confine turco, nel viaggio che sarebbe servito a consegnare i kit di primo soccorso ai combattenti dell’Esercito Libero Siriano. La zona, come è noto, è quella vicino alla città di Aleppo, dove la presenza di gruppi jihadisti, e in particolare del fronte al Nusra, è particolarmente significativa. Daniele Raineri, che ha importanti rapporti con i gruppi armati dell’opposizione, molti dei quali sono considerati dagli esperti internazionali delle organizzazioni terroristiche, ha raccontato i giorni del rapimento in un articolo pubblicato sul giornale diretto da Giuliano Ferrara. Ovviamente la sua è una versione completamente ripulita da tutte le circostanze che possono mettere in cattiva luce le due ragazze.
Nel suo resoconto non c’è alcuna traccia delle reale intenzioni di Marzullo e Ramelli, descritte come due volontarie che volevano portare assistenza alla popolazione civile. Le intercettazioni del Ros dei Carabinieri, così come riportate da Il Fatto Quotidiano, mostrano un’altra realtà: nessun tipo di cooperazione e volontariato, il desiderio delle due ragazze era prima di tutto quello di aiutare i combattenti, molti dei quali sono pericolosi fondamentalisti che hanno compiuto nell’area intorno ad Aleppo atroci crimini. Quello che le due ragazze non dicono, dopo tutto ciò è che afferma Raineri nei suoi articoli, è che in quell’area non è il “regime” a commettere i massacri ma proprio gli uomini con i quali loro, a vario titolo, hanno intrattenuto rapporti pericolosi. Gli stessi uomini che le hanno rapite e che, presumibilmente, hanno intascato un riscatto di molti milioni di euro.
Raineri sostiene che a ordinare il rapimento sarebbe stato Abdallah al Amni, comandante di al Nusra, ramo siriano di al Qaeda. Il racconto di Raineri è pieno di punti interrogativi: non è vero che al momento del rapimento si trovava con le due ragazze, nella casa del capo dei ribelli della zona, ma a 25 chilometri di distanza, in compagnia di un yemenita che afferma di essere il cugino di Anwar al Awlaki. Un yemenita in Siria di questi tempi non può che svolgere azioni che poco hanno a che fare con azioni umanitarie. È inquietante che un giornalista italiano, che entra ed esce da quel paese con l’aiuto di brigate armate in guerra, anche di matrice jihadista, si accompagni con un uomo che oggi viene considerato, come ricorda giustamente Il Fatto Quotidiano, l’ispiratore della tragedia di Charlie Hebdo in Francia.
Secondo il racconto del giornalista, le ragazze sarebbero anche riuscite a scappare e avrebbero chiesto aiuto ad alcuni siriani. Riprese da due gruppi ribelli, sarebbero state di nuovo consegnate nelle mani di Jabhat al Nusra. Raineri è già stato sentito dagli inquirenti come persona informata sui fatti.
Verrà risentito ancora una volta perché sono molti gli interrogativi legati alla sua presenza in Siria nei giorni del sequestro delle due ragazze. Certamente Raineri è in possesso di una serie di informazioni riservate (è un ottimo conoscitore dell’arabo a ha forti legami in quella parte della Siria) che possono gettare nuova luce sul sequestro. Bisogna vedere se la sua ricostruzione dei fatti coincide con quella fornita dalle due ragazze all’indomani del rilascio. Qualcuno ha tradito. E gli attori di questa vicenda, in cui si muovono strani personaggi come il fabbro Roberto Andervill, hanno evidentemente ancora molte cose da dire.
IL RACCONTO DI DANIELE RAINERI SU IL FOGLIO
Ma chi è la bionda e chi è la mora? La mora è Greta o è Vanessa?”. Aeroporto militare di Ciampino, sono le quattro del mattino di venerdì 16 gennaio. Atterra l’aereo del governo che riporta Greta e Vanessa in Italia dopo cinque mesi e mezzo di sequestro, nell’angolo riservato alla stampa c’è una barriera di schiene, di flash, di telecamere, e oltre c’è la pista con la delegazione della Farnesina ferma davanti alla scaletta. Io so chi è la bionda e so chi è la mora, ma resto in silenzio, basta vederle scendere.
L’uomo che ha ordinato la prigionia di Greta e Vanessa in Siria si chiama “Abdallah al Amni” ed è un comandante della Jabhat al Nusra, il fronte siriano di al Qaida. La seconda metà del suo nome di guerra, “Al Amni”, indica che ha un incarico particolare, si occupa della sicurezza interna: in pratica è come se fosse il direttore dell’intelligence di quel gruppo armato, nell’area della città di Aleppo. “Secret jobs, assassinations”, è una descrizione che viene data di lui da un contatto in Siria. Questo crea ancora più ostacoli se si ha bisogno di approcciarlo. La Jabhat è una fazione che ha una struttura segreta, ma Al Amni si muove a un livello ancora più profondo di segretezza e non risponde alla normale catena gerarchica cui sono sottoposti gli altri.
La gente del posto che vuole molto bene a Greta e Vanessa e vuole rivederle libere (sì, esiste) prova a passare attraverso altri comandanti dello stesso gruppo per raggiungere il capo dei sequestratori, ma i tentativi vanno a vuoto perché è un “Amni”. Un giorno si riesce a ottenere l’aiuto di un altro leader della Jabhat al Nusra, è il comandante militare nella zona di Idlib, a ovest di Aleppo. Lui si offre di provare a liberare le due italiane, anzi ostenta sicurezza, “ve le libero anche domani”, ma due giorni dopo, quando riesce ad andare ad Aleppo e si trova faccia a faccia con il carceriere, quello non ammette nemmeno di averle, le italiane: “Noi non facciamo queste cose, non entriamo nelle case di notte come volpi a rapire donne”. E aggiunge: “Se non trovi qualcuno disposto a giurare sul Corano che le ho davvero io, allora non venire più qui”.
Questi sono dettagli presi dalle conversazioni con alcuni contatti in Siria tra agosto e gennaio, perché le ricerche e i tentativi non si sono mai interrotti (e sono piccoli rispetto a quelli intrapresi dalla squadra di specialisti italiani, che sono arrivati alla stessa conclusione: Abdallah al Amni). Sono frammenti di informazioni che arrivano e vanno messi assieme giorno per giorno, e poi verificati, e confrontati mettendo assieme fonti diverse. A un certo punto, poche settimane dopo il rapimento, circola la notizia che un siriano che vive in Turchia appena oltre il confine sta provando a vendere un video delle due rapite. Si capisce che non fa parte del gruppo di sequestratori, si tratta piuttosto di una sua iniziativa personale per lucrare qualcosa nel sottobosco di intermediari, contrabbandieri, guerriglieri e profughi che vive a ridosso della Siria. Base d’asta per il video quattromila euro (se davvero ne aveva uno), l’offerta però attira troppa attenzione su di lui e la lascia cadere.
Poco oltre la metà di ottobre i contatti entrano in fibrillazione. “Libere domani”, dicono. “Libere entro tre giorni”. “Libere, al massimo entro una settimana”. Queste notizie certissime e che poi invece sfioriscono nel giro di ventiquattr’ore sono una prova di pazienza per chi sta in Italia, figurarsi per chi è prigioniero in Siria. Raccontano che Greta e Vanessa sono riuscite a scappare dal loro carcere, che hanno chiesto aiuto ai siriani che hanno incontrato all’esterno, che sul posto sono arrivati almeno due gruppi ribelli. Però poi è arrivata anche la Jabhat al Nusra. Ha chiesto le due rapite indietro e le ha riavute. Tutte le voci sulla liberazione imminente erano dovute alla convinzione che i due gruppi avrebbero infine imposto al fronte siriano di al Qaida di lasciarle libere. Non succede. Arrivano anzi due versioni: una è che i gruppi non vogliono sfidare apertamente il Fronte, l’altra è che i gruppi hanno trovato un accordo su una richiesta di denaro. Si cerca una conferma a queste versioni, non c’è.
Altre volte va pure peggio e dicono cose come: se non succede nulla entro una settimana, allora tocca passare all’azione militare, attacchiamo il posto dove le tengono e le liberiamo. Cominciano discussioni, che durano fino a quando non arriva il frammento di informazione successivo.
***
Di cosa parlano Greta e Vanessa? Sui giornali sono rimaste immortalate in quella foto della manifestazione a favore della rivoluzione siriana con le guance impiastricciate di colori, oppure in quella in cui s’abbracciano sorridendo. Non puoi controllare le immagini di te su internet nel momento in cui ti rapiscono, resti in quella posa, anche se non è fedele al vero. Chiunque abbia ascoltato una loro conversazione può confermare questo: parlano di logistica e di soldi, di soldi e logistica, tra loro oppure con altri, al telefonino, su Viber, WhatsApp, Messenger e altri mezzi di comunicazione. Perché il denaro è al centro di ogni possibile iniziativa di assistenza, è quello che fa funzionare gli aiuti in un paese straniero, anche con microdonazioni da dieci euro.
“Quanto costa far passare il latte in polvere dalla Turchia?
Quanto possiamo fare con una cena di autofinanziamento lì vicino a Milano?
A quanto vendere queste foto che ci hanno spedito dalla Siria?
Quanto ricaviamo?
Quanto ci vuole per aggiustare un pozzo di acqua potabile?
C’è il siriano Tizio, in stazione centrale, che aspetta aiuto.
Quanto medicinale X possiamo portare?
C’è il siriano Caio, che vorrebbe andare in Svezia come rifugiato politico e non sa come fare.
Conviene comprare il medicinale X in Turchia?
Chi ha una lista dei medicinali che servono di più in quella zona?
E invece in quell’altra?”.
Una volta ho sentito Vanessa dire: “Io non so di cosa parlare con molti ragazzi della mia età. Uno mi ha chiesto:
– Ti posso invitare a cena?
– Perché?
– Be’, magari così possiamo parlare.
– Ma parlare di cosa?
Io con quello non avrei saputo di cosa parlare”.
A volte c’era anche una punta di bruschezza, se qualcuno coinvolto nell’assistenza mancava di praticità e prendeva tempo inutilmente. “Noi stiamo offrendo aiuto, se non vuoi non perdiamo tempo”.
Greta e Vanessa parlano anche di persone in Siria, perché fare volontariato è una questione complicata, hai bisogno di raggiungere una moltitudine di contatti, e loro ne hanno decine in tante province del paese, da Aleppo a Damasco. Ci sono persone che, chiamate da loro in Italia, sono state disponibili a spostare medicinali e a visitare cliniche. Dopo il sequestro, sono arrivate offerte di aiuto da persone sparse in un’area vasta centinaia di chilometri.
***
La notte in cui Greta e Vanessa sono state rapite ero a circa venticinque chilometri dalla casa dov’erano loro. In giro è circolata la notizia di una fuga rocambolesca, ma semplicemente non ero lì, ero in una base di ribelli a sud di Aleppo, il fronte assadista era a circa cinque chilometri a est. Ho scritto “base”, ma era una casa di campagna abbandonata e usata dai ribelli. Niente elettricità, niente telefono né internet. Il capo della casa era un ex soldato delle forze speciali di Assad, assai ricercato per la sua abilità nell’insegnare l’uso delle armi leggere. Fuggito due anni fa da una base dell’esercito siriano, colpito finora cinque volte da proiettili in combattimento, se l’è sempre cavata.
Quella notte si stava seduti su materassi di gommapiuma fuori dalla casa, al buio. C’è sempre una lieve pausa, un momento di imbarazzo collettivo prima di cominciare a parlare, poi quando si inizia non si smette più. Dopo la mezzanotte è passato a trovarci un muhajir, un combattente straniero, in quel caso uno yemenita che diceva di essere cugino di Anwar al Awlaki. Awlaki è un predicatore americano ucciso dai droni nel 2011 ed è considerato l’ispiratore del massacro nella redazione parigina del giornale di Charlie Hebdo della settimana scorsa (nota bene: le guerre arabe sono un club senza selezione all’ingresso). Il cugino si è lanciato in un discorso poetico sul firmamento che si vedeva nitidissimo causa l’assenza di luci, poi in un discorso assai meno poetico su Israele.
Foto scattata da Daniele Raineri ad Aleppo
Alle cinque del mattino ci sono stati colpi alla porta. Sono entrati due siriani, hanno detto: “Hanno sequestrato le due italiane. Stanno cercando anche te”. Come fate a sapere che stanno cercando anche me? “Ci hanno chiesto se sapevamo dov’eri”. Sono uomini appartenenti a qualche grande gruppo della guerriglia, avevano qualche tipo di stemma, oppure erano una banda di armati qualsiasi? “Non lo sappiamo. Avevano i passamontagna, quasi tutti. Ci hanno puntato le armi in faccia”. A quel punto l’unica cosa rimasta da fare era andare verso il confine con la Turchia, dove il telefonino non è più inutile e può prendere di nuovo campo. I ribelli hanno prestato una macchina e una scorta di uomini armati, in modo da essere un bersaglio meno appetitoso per eventuali sequestratori. Un’ora dopo ho chiamato l’unità di crisi del ministero degli Esteri.
***
Quel giorno ho incontrato la squadra mandata dalla Farnesina per occuparsi del caso, perché qualsiasi informazione poteva essere utile. Eravamo ad Antakya, che è una città turca a una quarantina di chilometri dal confine siriano che fa da centrale più o meno clandestina per tutti i traffici che contano nella guerra che si combatte dall’altra parte. Ricordo che uno di loro masticava una pipa e raccomandava: “Ora è importante il silenzio più assoluto, nessuna notizia in giro, sul giornale, o chessò, sul blog – gesto con la mano a indicare quelle cose là su internet – per facilitare il rilascio delle ragazze. Massimo, assoluto riserbo”.
Si tratta di una procedura standard in caso di sequestri, e non c’era necessità di aggiungere altro. A volte tacere aiuta a risolvere la situazione subito, prima che s’irrigidisca, quasi come se fosse stato un malinteso. In generale, aiuta chi deve negoziare. Ma la squadra aggiunse un incentivo al silenzio che mi fece capire quanto è caduta in basso la considerazione per il mestiere di giornalista: “Se ci aiuti a tenere la notizia segreta, ti terremo informato su cosa succede, per il tuo lavoro”. Pensai: qui credono che io voglia scrivere un articolone su questo doppio sequestro in Siria. Come se la situazione non fosse già complicata.
Giovedì è arrivata da due fonti diverse la notizia della liberazione. Il tempo di fare qualche verifica, e nel primo pomeriggio c’è stata anche la certezza.