Recentemente, nel corso di un programma televisivo, il giornalista Federico Rampini è intervenuto per parlare di Medio Oriente e della difficile situazione che sta vivendo la popolazione civile a Gaza per l’operazione militare di Israele dopo l’azione terroristica di Hamas dello scorso 7 ottobre. Rampini, indicando nella Repubblica Islamica dell’Iran uno degli ostacoli maggiori per la pace nell’area, ha sottolineato come nel mondo arabo ci siano attori, come l’Arabia Saudita, che più di tutti si stanno dimostrando affidabili nei rapporti con l’Occidente. Lo Stato d’Israele, ovviamente, sarebbe uno dei più interessati a stringere rapporti con la monarchia saudita, indebolendo così Hamas nel mondo arabo.
Il ragionamento di Rampini ruota su un concetto molto in uso nell’informazione italiana, ovvero che ci sono paesi musulmani cattivi (l’Iran e i suoi alleati) e paesi musulmani buoni o molto buoni (Arabia Saudita, appunto). Un’idea fatta propria anche da una parte della politica italiana, quella che più di tutti tende a isolare non solo Hamas ma l’intero popolo palestinese per non arrecare disturbo la politica espansiva di Israele. Del resto, l’ex premier Renzi ha fatto dei rapporti con i sauditi e con il principe bin Salman un tratto caratterizzante della sua visione geopolitica in quella parte del mondo.
Detto questo, l’Arabia Saudita, con il suo Rinascimento, viene descritta come un modello per il mondo arabo, una sorta di nuovo Islam aperto ai diritti e alle libertà civili. Nell’affermare ciò, spesso con la prosopopea di essere esperti della materia, si propina all’opinione pubblica una visione del tutto errata di un paese che certamente ha mostrato segni di apertura ma che, a differenza di altri paesi islamici o a maggioranza musulmana, non può essere affatto preso come un esempio quando si parla dei diritti delle donne.
Proprio qui è caduto il giornalista Federico Rampini che, nel suo intervento in tv, ha affermato di essersi recato in Arabia Saudita e di aver visto con i propri occhi gli straordinari miglioramenti della condizione femminile nel paese. Il tono enfatico di Rampini faceva pensare che lo status delle donne nel paese del Golfo fosse oramai caratterizzato da ampie libertà e da clamorosi stravolgimenti.
Questo, del resto, è ciò che vuole far credere una parte delle autorità saudite per raccogliere i favori di una parte della comunità internazionale, quella che mal digerisce i rapporti della monarchia con il terrorisimo islamico, il fanatismo religioso e gli omicidi di Stato (si pensi alla morte del giornalista Jamal Khashoggi). A sostegno dell’Arabia Saudita paese aperto ci sono sempre i soliti luoghi comuni: le donne oramai possono guidare, possono uscire senza il velo, sono sempre più emancipate, libere e padrone del proprio destino. Insomma, l’Arabia Saudita, a differenza dell’Iran, è il paese in cui le donne islamiche possono sentirsi più libere.
Il tratto ingannevole delle dichiarazioni non tiene conto del dibattito in corso da quando l’Arabia Saudita, per mero atto formale, è stata chiamata a presiedere il Forum delle Nazioni Unite sui diritti delle donne. La Commissione ha il compito di promuovere i diritti delle donne e l’uguaglianza di genere.
“La nomina dell’Arabia Saudita, – scrive Amnesty International – dove le violazioni dei diritti delle donne sono clamorose, va completamente contro le aspirazioni della Commissione. Far parte degli organismi delle Nazioni Unite che si occupano di diritti umani, ancora di più dirigerli, dovrebbe rendere gli stati membri doppiamente responsabili del loro rispetto a livello nazionale e globale.”.
Rampini, ma non è il solo, sembra volutamente ignorare la Legge sullo Statuto della Persona, che rappresenta un regresso per i diritti delle donne in Arabia Saudita. Presentata nel 2022 dalle autorità come un significativo progresso verso la modernizzazione e l’uguaglianza, questa normativa ha rafforzato la discriminazione di genere in vari ambiti della vita familiare, dal matrimonio al divorzio, dalla custodia dei figli alle questioni ereditarie, senza offrire una protezione adeguata contro la violenza di genere.
Amnesty International ha recentemente analizzato una bozza del nuovo codice penale saudita, delineando un futuro allarmante per le donne nel Paese. Questo codice non solo garantisce l’impunità agli autori dei cosiddetti “crimini d’onore”, ma non prevede nemmeno la punizione per lo stupro coniugale e criminalizza le relazioni sessuali consensuali tra persone adulte dello stesso sesso, oltre a quelle extramatrimoniali.
Le donne saudite che difendono i diritti umani affrontano gravi conseguenze, tra cui condanne al carcere, divieti di viaggio e ulteriori restrizioni alla loro libertà di espressione. Negli ultimi anni, molte attiviste sono state condannate a pene severissime per aver espresso il loro sostegno ai diritti delle donne.
Un caso emblematico è quello di Salma al-Shehab, una dottoranda e madre di due figli, che sta scontando una pena di 27 anni di carcere per aver difeso i diritti delle donne su X. Un altro esempio è Manahel al-Otaibi, istruttrice di fitness, blogger e difensora dei diritti umani, vittima di sparizione forzata dal novembre 2023. Al-Otaibi attende il processo davanti al Tribunale Penale Speciale, il tribunale antiterrorismo dell’Arabia Saudita, per aver pubblicato foto di sé senza l’abaya, il tradizionale abito femminile, e contenuti critici verso il repressivo sistema del tutore maschile.
Questi casi evidenziano la drammatica situazione delle donne in Arabia Saudita, un Paese in cui le promesse di progresso e uguaglianza restano ancora lontane dalla realtà vissuta quotidianamente da milioni di donne.