Europa e Turchia: il risveglio del panturan e il cristiano rinnegato


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di Bruno Scapini – Ambasciatore

 

Non v’è dubbio. La vicenda del comico tedesco Jan Boehmermann è diventata emblematica della soggezione europea alla prepotenza di Erdogan. Ben sappiamo, infatti, come la satira politica sia comunemente accettata nella cultura europea risalendo peraltro essa ad una espressione artistica dell’antica Roma, ove, sul “palcoscenico”, il comico di turno si poteva concedere a sottili frecciate satiriche addirittura nei confronti dello stesso Imperatore senza essere per questo biasimato, e tanto meno punito.

Ma il leader turco evidentemente si sente al di sopra di un Imperatore e non tollera né rispetta i costumi e le consuetudini di altri Paesi, né le loro culture.

Gia’ in altre occasioni  Erdogan  ebbe a minacciare la movimentazione di comunità turche all’ estero in ossequio all’obiettivo di conseguire interessi nazionali; ma non ci saremmo mai aspettati dalla Germania di oggi un tale asservimento al volere del nuovo sultano “in erba“  della mezzaluna. Bismarck affermava che la Germania “teme  Dio soltanto, e nessun altro al mondo”. Ma oggi la decisione di Angela Merkel smentisce ampiamente questo sentimento di potenza del popolo tedesco, e anzi ne rivela una intrinseca debolezza di attitudine per riflettere al contempo l’incapacità dell’Europa stessa a tutelare e proteggere i propri valori.

E’ dunque, questa, una ennesima provocazione messa in atto da Ankara, ben consapevole oggi della irrinunciabilità del suo ruolo per una Europa ormai in caduta libera verso  il diniego dei propri principi morali, cultura e identità.

E a fronte di tutto questo – come anche della certezza di un corso politico sostenuto da Erdogan repressivo delle libertà civiche, dei Diritti Umani e della libertà di stampa –  e a dispetto dei fondati sospetti di una connivenza di Ankara  con un certo terrorismo ipocritamente definito ”buono” per distinguerlo da quello “cattivo”, c’è ancora in Europa chi sostiene l’ingresso della Turchia nell’U.E; e ciò nella fallace convinzione di ottenerne positive esternalità economiche e vantaggi politici in un contesto medio-orientale tuttora turbato dai fermenti e dalle conflittualità suscitate dalle varie “primavere arabe”.

Ma nella  prospettiva di valutare più in profondità l’inopportunità  di un collegamento più stretto di Ankara con l’ Europa  sarebbe comunque utile considerare alcune buone ragioni – ne vediamo almeno quattro –  per svolgere una seria riflessione critica sul punto. E non tanto per declinare qualsiasi cooperazione con Ankara – utile sotto alcuni profili – , quanto per tenere questo Paese “amico” ad una certa distanza, nel legittimo sospetto che possa assumere, nel conseguimento dei propri interessi, atteggiamenti in disprezzo di una fedele amicizia con l’ Europa o in contraddizione, nel contesto strategico internazionale, con gli stessi obiettivi politici dichiarati dalla sua dirigenza.  Motivi tutti ben validi per soprassedere, almeno alla luce dell’attuale corso politico di Erdogan, ad un ingresso del suo Paese nell’Unione Europea.

Una prima ragione fondamentale sarebbe quella religiosa.

La deriva islamica intrapresa dall’attuale regime di Ankara si pone, infatti,  in pieno contrasto con i valori ricompresi nell’identità cristiana dell’Europa. Nei Paesi europei vige un principio essenziale nel governo delle società: la separazione tra Stato e Chiesa. Elemento, questo, che ha sollecitato un veloce affrancamento delle nostre società da condizionamenti dogmatici  promuovendone una loro evoluzione in termini di modernità e libertà. L’Islam, al contrario, si nutre della diversità per combatterla e costituzionalizza la Fede come istituzione politica.  La parola stessa significa “sottomissione” e nasce riunendo in se’ tre componenti: la Fede, quale elemento trascendente, la cultura, derivata da un testo sacro condiviso linguisticamente  dalla Ummah ( la  comunità islamica nel suo insieme ), la Legge, fondamentale elemento identificato nei principi del Corano cui lo Stato e la società traggono ispirazione come fonte di diritto. Tre componenti che concorrono congiuntamente a formare un insieme inscindibile di valori islamici difficilmente modificabile, nè adattabile, nel breve-medio periodo.

Su tali premesse appare, dunque, evidente l’irriducibile contrasto che emergerebbe con le sensibilità europee da un eventuale ingresso nell’U.E. della Turchia. Come anche l’impossibilità di conciliare con i fondamenti cristiani dell’Europa, non tanto i principi generali della Fede, quanto le istituzioni civiche, politiche e giuridiche del Paese col rischio di aprire le porte ad una islamizzazione dell’Europa e, conseguentemente, alla sua destabilizzazione culturale, politica e, perché  no, identitaria.

Altra ragione è quella di politica estera.

L’entrata di Ankara nell’U.E. comporterebbe l’ingresso contestuale in Europa di tutte le problematiche  politico-territoriali da cui quel Paese è tuttora affetto.  Se “zero problems with neighbours” è stato lo “slogan” di Erdogan ad inizio di regime, denotando una sua falsa attitudine a voler risolvere con i vicini di casa tutti i problemi politici e di definizione delle controversie territoriali, vediamo invece  come tali problematiche oggi non solo permangano, ma addirittura si siano accentuate negli ultimi anni e talvolta con l’omertoso silenzio o inettitudine di Bruxelles. La questione dell’occupazione di Cipro del Nord, gli irrisolti contenziosi marittimi con la Grecia, il tuttora mancato riconoscimento del Genocidio armeno, l’appoggio più sfacciatamente ora offerto all’ Azerbaijan contro la cristiana Armenia con la perdurante chiusura della frontiera con questo Paese, la tensione politica con il regime di Teheran e quella recentemente accresciutasi con la Russia, sono solo alcuni esempi  dei difficili rapporti che la Turchia intrattiene con i propri vicini nella prospettiva di spingere il proprio “soft power” in Medio Oriente e nell’Asia centrale, quest’ultima quale regione che la Turchia considera sua area di influenza preferenziale in virtù delle fratellanze turcomanne che ne giustificherebbero la riconduzione ad una unica ambita visione “panturanica” del mondo. Tutte problematiche queste che, venendo sollecitate da una politica estera tanto ambiziosa nei fini, quanto spregiudicata nei metodi, rischierebbero – qualora Ankara facesse ingresso in Europa – di investire le scrivanie di Bruxelles, già oggi alle prese con un’ ardua azione di consolidamento istituzionale conseguente all’ultimo improvvido allargamento.

Altra ragione atterrebbe poi alla situazione politica interna di questo Paese.

La Turchia, sappiamo, vive una tensione interna ad alto indice di conflittualità. Il rifiuto a voler riconoscere le aspirazioni delle altre comunità etniche – in primis quella curda –  implica un rischio diffuso e consolidato di instabilità, accentuato peraltro, a livello sociale, dal mancato rispetto dei Diritti Umani, dal soffocamento della libertà di stampa  e dalle continue violazioni dello “stato di diritto”. Ankara, agendo in tal modo, e reprimendo “manu militari” qualsiasi forma di dissidenza, disconosce alla radice i valori fondanti dell’Europa e si pone con essa in pieno contrasto rendendo ostico qualunque tentativo di conciliazione  dei sistemi valoriali di reciproco riferimento.

Ma l’incompatibilità di un ingresso in Europa di Ankara si evidenzierebbe anche sul piano economico-commerciale.

La Turchia – ne abbiamo ampie prove fornite dall’OCSE e da altre fonti statistiche nazionali – è una gigantesca macchina di “pirateria commerciale”, ovvero il secondo Stato al mondo, dopo la Cina, per traffico illecito di merci contraffatte. Il Paese farebbe registrare  infatti – secondo l’OCSE – un volume di affari  calcolato in circa 5 miliardi di dollari l’anno, venendo normalmente violati,  peraltro con la tolleranza  del Governo, i diritti sulla proprietà intellettuale nonostante l’esistenza nell’ordinamento interno di normative di tutela.  Sul piano demografico, poi, la forte crescita che si è  registrata della popolazione nell’ultima decennio ( passata da 68 a 79 milioni circa di anime )lascerebbe supporre, con l’ammissione  di Ankara all’ Unione,  una ancor più accentuata spinta migratoria quale fattore di destabilizzazione di un mercato del lavoro in Europa ancora in sofferenza a causa delle pastoie imposte da una irrisolta crisi economica.

Appare così ovvio, in simili circostanze, come l’ingresso di Ankara in un’area doganale e di mercato sostanzialmente omologata secondo criteri di uniformità, ossequiosa di una corretta competitività e osservante delle condizioni di equa concorrenzialità, quale è quella europea, rischi di introdurre gravi  fenomeni di distorsione commerciale per contenere i quali le azioni di contrasto dall’interno dell’Unione diventerebbero  assai difficoltose, se non impossibili da realizzare.

L’ immagine, infine, di una Turchia che, guardando all’ Europa, in realtà pensa e si comporta in modalità contraddittoria, mantenendo una condotta, sopratutto in politica estera, a “doppio standard”, ci viene del resto proprio ora confermata dal 13° vertice dell’Organizzazione di Cooperazione Islamica ( O.I.C. ).

La dichiarazione finale, infatti, sottoscritta da tutti i Paesi partecipanti ad esclusione dell’ Iran – noto antagonista dell’Arabia Saudita –  avrebbe indicato un chiaro schieramento della Turchia a favore del fronte islamico con i cui obiettivi e strategie Ankara si troverebbe allineata  rivelando ancora una volta una inconciliabilità di fondo della politica estera voluta dalla sua dirigenza con i fondamenti dell’azione internazionale perseguita dall’U.E. e assunti  a contenuto della PESC.

E’ chiaro ora come con Erdogan la Turchia abbia intrapreso un perplesso corso di deriva islamica, causa indubbiamente di divisioni interne e di tensioni che, peraltro, venendo accentuate da una gestione dispotica del potere in disprezzo delle libertà civiche, non mancherebbero di suscitare una condizione di diffusa instabilità di cui l’Europa non potrebbe non tenere conto nel suo collegamento con questo Paese.

Tempi, dunque, ancora non maturi per un ingresso di Ankara nell’U.E.. Certamente si dovrà continuare sulla strada della cooperazione. Ma questa andrà più opportunamente “tarata” sulla base del comportamento che la dirigenza turca vorrà mantenere nel rispetto dei valori occidentali. E a tal fine, banco di prova potranno  proprio essere le iniziative che la Turchia assumerà a fronte dei principali nodi di politica internazionale nell’ambito dell’ Organizzazione di Cooperazione Islamica, organismo  di cui Ankara ha recentemente assunto la responsabilità della  Presidenza di turno.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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