(Simona Planu) – C’è una città del mondo dove la prima immagine che ti restituisce una moschea non è un minareto, ma una bandiera bianca e azzurra con una stella al centro. Una città dove il cielo appare come un vetro rotto, filtrato dalle maglie di una rete metallica che dovrebbe tenere lontano razzismo e intolleranza, ma che invece lascia tutto lì, davanti agli occhi dei passanti. Una città dove i soldati sono appena più che bambini e i fucili che portano in spalla sembrano davvero troppo grandi. Al-Khalil è il suo nome, meglio conosciuta con il nome internazionalmente “accettato” di Hebron.
Questa città è divisa dal 1997. A guardarla dalle mappe, sembra la riproduzione grafica del set di un’esercitazione militare. Il 20% del territorio, l’area H2, è sotto il controllo militare israeliano. Nell’area H2 si concentrano gli insediamenti, illegali secondo la legge internazionale e le Nazioni Unite, i blocchi stradali, le strade chiuse, quelle vietate ai veicoli palestinesi, le zone dove i negozi sono stati chiusi, le torri di osservazione, i checkpoint e le aree dove ai palestinesi è vietato l’accesso.
Città laboratorio della West-Bank, modello di convivenza non pacifica dichiarata dalle scritte “gas agli arabi” presenti sulle porte sbarrate dei negozi. Qui i coloni girano armati e scortati e, spesso, fanno parte dell’esercito. Negli anni hanno aumentato la loro presenza nel territorio, impossessandosi delle case e lasciando poco spazio a una possibile convivenza con la popolazione palestinese. La situazione è esplosiva, ai limiti della dignità umana.
Il monitoraggio della situazione venne affidato nel 1997 agli osservatori del TIPH (Temporary International Presence in the city of Hebron). Il loro mandato viene confermato di 6 mesi in 6 mesi, da Israele e Autorità Palestinese. La missione ha, tra gli altri, l’obiettivo di promuovere la sicurezza dei palestinesi, la stabilità, il miglioramento del benessere e delle loro condizioni economiche.
Nell’accordo siglato tra israeliani e palestinesi, per la presenza di tali osservatori, nessun accenno viene fatto ai coloni israeliani. Probabilmente perché le colonie sono illegali dal punto di vista della legge internazionale e, inoltre, alla sicurezza dei coloni ci pensa l’esercito israeliano.
Come dimostrato anche dalle dichiarazioni rilasciate dagli stessi osservatori del TIPH, la missione internazionale non sembra produrre alcun vincolo per ristabilire la legalità e per promuovere i Diritti Umani. La frustrazione provata dagli stessi osservatori, è quella di non avere capacità di intervento, né di pressione.
E’ qui che la storia diventa cronaca quotidiana: quando i checkpoint, da luoghi di perquisizione, arresti e umiliazioni, diventano teatro di morte. In questa città a documentare le umiliazioni, le violazioni, gli arresti e gli omicidi rimangono solo le organizzazioni che promuovono i diritti umani e i gruppi di attivisti, internazionali e non, che si affacciano o vivono questa realtà.
In gergo UN sono gli Human Rights Defenders. Sono le Istituzioni e gli individui che, singolarmente, o in gruppo, agiscono per promuovere e proteggere i diritti umani e le libertà fondamentali nel mondo. Con tutte le riserve del caso, sono spesso la voce di chi non viene ascoltato e sono lo strumento d’azione per chi si trova in una condizione di vulnerabilità. Agiscono laddove le controversie e i conflitti escono dalla sfera del singolo e le violazioni dei diritti sono perpetrate da organismi statali, gruppi politici o gruppi armati che, in maniera legittima o no, detengono il potere o agiscono per delegittimarlo.
Il sistema delle Nazioni Unite prevede particolari tutele per garantire la libertà e la protezione di coloro che operano a garanzia di un sistema di diritti. Nella realtà, soprattutto in aree di conflitto, la tutela di chi denuncia le violazioni è spesso messa a rischio.
Oggi le organizzazioni per i diritti umani chiedono aiuto e chiedono altresì di non essere lasciate sole. I loro operatori denunciano di essere vittime di arresti e interrogatori, le loro sedi vengono occupate e sabotate dai coloni e dall’esercito, i loro strumenti sequestrati o danneggiati in maniera irreparabile. Sono organizzazioni palestinesi che spesso lavorano fianco a fianco a quelle israeliane per denunciare un sistema di soprusi e violazioni.
Anche in Israele le organizzazioni si trovano a combattere contro l’ostilità del governo. Si chiama Transparency Bill il provvedimento presentato dal ministro della giustizia Ayelet Shaked. Il provvedimento dovrebbe regolamentare la visibilità delle organizzazioni israeliane finanziate per più del 50% da governi esteri.
Il ministro assicura che l’intento del provvedimento non è ledere la libertà di espressione ma promuovere la trasparenza. Sono di tutt’altro avviso le organizzazioni per i diritti umani che in Israele hanno alzato la voce: il Transparency Bill sembra essere solo uno strumento volto a limitare il dissenso contro le politiche di occupazione e la violazione dei diritti umani. Le organizzazioni temono che, come già anticipato in passato, il provvedimento possa aprire la strada a limitazioni effettive che ne compromettono l’operato.
Sono i cosiddetti Human Rights Defenders che divulgano i video-testimonianza delle uccisioni, che mettono in discussione le versioni ufficiali e che mostrano quanto possa essere disumano un conflitto e i suoi protagonisti. Esistono città del mondo dove tutti gli abitanti sono degli attivisti per i diritti: rimangono lì, nonostante tutto e chiedono di non finire nel silenzio e nell’oblio.